Economia della Conoscenza

Roberto Rosso: la fotografia deve raccontare non mostrare

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di Alessandro Paciello

Definire Roberto Rosso un “fotografo” è ciò che forse più gradirebbe ma, allo stesso tempo, rischia di non valorizzare, soprattutto agli occhi dei profani, la sua ricerca nel campo dell’immagine fotografica. Fotografo professionista specializzato in Beni Culturali, scenografo, titolare della Cattedra di Fotografia all’Accademia delle Belle Arti di Brera, a Milano. La sua opera e il suo insegnamento vanno decisamente controcorrente rispetto al mainstream.

E, proprio per questo motivo, reputo degno di approfondimento il suo pensiero critico e “laterale”. Ma, soprattutto, trovo interessante la proposizione della fotografia, intesa in senso “analogico”, come baluardo della memoria e testimone del tempo.

Maestro, lei insegna fotografia. Come la definisce ai suoi allievi?

In maniera didascalica, la fotografia è l’interazione della luce con la materia, che in autonomia produce un documento che contiene una memoria. Pertanto, fotografia è ciò che è stato di fronte alla macchina fotografica; tutto ciò che non corrisponde a questo, non è fotografia.

Così definita, si restringe di molto il campo di ciò che volgarmente definiamo fotografia, o sbaglio?

Non sbaglia! Prima dell’avvento del digitale, nessun critico d’arte ha mai considerato la fotografia come arte, proprio in virtù del fatto che ciò che si vede non è un prodotto fatto dall’uomo; quindi, l’opera del fotografo non può essere considerata un talento artistico.

La logica e il pensiero della critica hanno sempre trovato la condivisione di tutti, relegando in tal modo il fotografo a semplice documentarista, senza peraltro considerare il valore stesso della documentazione.

Ora, il fatto che la tecnologia digitale abbia prodotto un nuovo linguaggio, alla portata di chiunque e pertanto condiviso dal mercato, affrontabile attraverso la sola estetica e quindi leggibile come si legge un quadro, promuove sul campo la fotografia ad arte e questa è la chiara ammissione che ciò che si vede oggi non è più fotografia.

Roland Barthes definiva punctum” la costruzione di unimmagine in cui ogni elemento presente contribuisce alla sua emersione. Ci definisce meglio il punctum” della e nella sua opera fotografica?

Le forme delle mie fotografie non sono una creatività o progettazione estetica, sono la forma generata dal tempo in rapporto al movimento della materia fotografate in un tempo fermo; è in questo sapere il punctum della mia fotografia, nella consapevolezza, cioè, di vedere la forma della memoria.

Fotografo e artista, perciò, due approcci diversi…

Assolutamente sì! Ciò che leggiamo come fotografia contemporanea non è stato di fronte alla macchina fotografica. La post-produzione ne cancella la memoria ma, soprattutto, l’atteggiamento di chi scatta non ha più nulla a che fare con la fotografia per come si dovrebbe intenderla poiché, oggi, si fotografa per far vedere e non per raccontare, come ha invece sempre fatto la fotografia.

La difficoltà di fare, quindi di leggere una fotografia, ha permesso di accettare a braccia aperte il nuovo corso, che ci permette di insegnare qualcosa che non è mai stato insegnabile: fotografare. La fotografia è come la calligrafia, unica e non modificabile. Pertanto, scrivere e fotografare non possono sottostare a nessun presunto insegnamento e non possono essere modificabili nemmeno da se stessi. Ecco perché chi ha la pretesa di insegnare a fotografare, dichiara “in fieri” di non sapere cos’è la fotografia.

Eppure, i corsi di fotografia proliferano e attirano molti giovani…

Infatti, nella completa accettazione e inconsapevolezza sia da parte del mercato che di una parte della critica e di una parte della didattica, stiamo cambiando in noi stessi la percezione della realtà, permettendoci di costruire un futuro sulla menzogna. Ma, cosa ancor più grave, stiamo distruggendo l’unico linguaggio in grado di fare memoria.

Tutto procede guidato dal mercato, il quale ben si guarda dal possedere un’onestà intellettuale in merito. La cosa più avvilente è l’accettazione di tutto questo da parte di una certa critica, che nella difficoltà di non saper distinguere una fotografia da un’illustrazione, pur di recuperare il tempo perso dietro a un’arte, che arte non è più, mescola le carte e si bea di giudicare qualcosa che non conosce affatto.

Ma quindi, Maestro Rosso, si tratta di ricreare una cultura ex novo sul concetto di fotografia”, ridefinendo i paletti che la distinguono da unarte che non dovrebbe essere considerata fotografia” in modo propriamente detto. O sbaglio?

Non sbaglia! La digitalizzazione che ha invaso la nostra quotidianità ha sicuramente cambiato molti concetti e usi. E non sempre in meglio. Si è creata una distorsione concettuale e percettiva rispetto a moltissimi ambiti della nostra vita. Nel mio campo, la fotografia, non si sfugge a questa distorsione che va affrontata, pena il rischio di perdere la “memoria” che anche attraverso l’immagine fotografica perpetua il vissuto umano nel corso della storia.

Dobbiamo pertanto evitare che questa storia sia falsificata dalla digitalizzazione, come dicevo prima. Avremmo, infatti, un racconto falso a uso e consumo di chi vuole far percepire ciò che vuole e non ciò che è o, meglio, è stato.

La fotografia, intesa nel senso proprio e originale del termine, come sinonimo di racconto e non come raffigurazione puramente estetica, quindi. Giusto?

La fotografia non si fa per far vedere, per mostrare, ma per raccontare. Guardare una fotografia pensando che il suo valore risieda nella sua presunta estetica vuol dire non conoscere questo linguaggio. Lontano da queste procedure, la mia ricerca risiede nella meditazione sul tempo, nella possibilità di usare questo linguaggio per vedere qualcosa che è esistito di fronte alla mia macchina fotografica, ma che non è possibile vedere attraverso i nostri occhi.

Cioè?

Il mio senso del fotografico si concretizza nella possibilità di ottenere una forma generata dal tempo. Una forma con valori geometrici perfetti e inimmaginabili, una forma che nessuno e nessun programma sarebbero mai in grado di creare: la forma della memoria. Questa fotografia vuole fornire e consentire la possibilità di andare oltre il tempo fotografico, per esplorare quel tempo a noi non concesso, il presente, cercando di comprendere come sarebbe possibile fotografare in un tempo fermo.

Per questi motivi vorrei che le forme presenti in queste fotografie non fossero viste solo nella loro estetica, ma lette in funzione del processo che le ha prodotte. Sono forme con estetiche diverse da quelle conosciute ma, in questi casi, l’estetica è secondaria per importanza alla natura che le ha prodotte.

Maestro Rosso, ma come realizza le sue fotografie, come quelle che vediamo in queste pagine?

Questa ricerca è iniziata 25 anni fa quando, in possesso di un dorso digitale per banco ottico, volli addentrarmi nel concetto di tempo, analizzando il sistema della scansione e mettendolo in riferimento alla definizione di Aristotele, “il tempo è un numero in moto secondo un prima e un poi”.

Dovetti progettare una piattaforma particolare e sincronizzarla con il dorso; in questo modo, sono riuscito a fotografare un movimento in un tempo fermo, il presente ipotizzato del “numero in movimento”, muovendo cioè il soggetto alla stessa velocità del sensore. Praticamente, sono riuscito a fermarlo senza fermarne il suo moto. Per questo, le immagini che risultano da questo processo sono esenti da qualsiasi post-produzione e non si possono nemmeno immaginare, né produrre, con un programma esistente.

Le sue opere hanno qualcosa che richiama la pittura…

L’impianto che costituisce le composizioni è volutamente pittorico con riferimenti vagamente metafisici. Mi serve per “prendere in giro” il fare fotografico contemporaneo, che si basa esclusivamente su ciò che vede, proprio come di fronte a un dipinto, tralasciando totalmente la drammaturgia del contenuto.  Probabilmente, forse, proprio perché non esiste…..n

Roberto Rosso

Roberto Rosso Nato a Varallo Sesia (VC) nel 1956, si laurea all’Accademia di Belle Arti A.C.M.E. di Novara. Oggi vive a Milano e insegna all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove è titolare della cattedra sia di Fotografia sia di Fotografia dei Beni Culturali alla Scuola di restauro. Ha all’attivo numerose mostre ed esposizioni in Italia e all’estero. Premiato in diversi concorsi nazionali, nel 2018 la sua opera raffigurante lo Stemma Pontificio di Papa Francesco entra nelle Collezioni Vaticane