L'editoriale

Guerra e Pace

Scritto il

di Claudio Brachino

Speriamo che Tolstoj ci perdoni per esserci impossessati della semplicità geniale del titolo del suo capolavoro, ma è la situazione in cui ci troviamo (del resto è per questo che i capolavori sono immortali). Siamo proprio così, sospesi tra l’angoscia di un conflitto che sembra senza soluzione e piccoli segnali di pace che cerchiamo tra le notizie perché non riusciamo a credere che l’uomo nel XXI secolo non sia migliore dei suoi orrori atavici.

Siamo in un mondo che è come l’immensa ragnatela di un ragno diabolico, ogni movimento in un punto produce una vibrazione più o meno traumatica in un altro.

Credo che gli italiani bombardati, almeno loro metaforicamente, da due anni di stimoli apocalittici, fuggano ormai dalla verità. Invece ci deve essere un punto fermo, la guerra in Ucraina ha cambiato per sempre anche il nostro destino. C’è chi paga il conto con la vita in prima linea e c’è chi paga con lo tsunami delle proprie economie. Un flusso costante di immagini drammatiche arriva dal fronte ma il cervello si rifugia nell’anestesia di un quotidiano che intanto scricchiola da tutte le parti. Dalla domotica del benessere siamo passati in un lampo, che è pure quello delle esplosioni belliche, al tasto artigianale di un tempo antico, spegnere la luce per non essere travolti dalle bollette.

Dal boom economico al boom delle bombe

C’è un bellissimo saggio di Freud sul sinistro, un effetto letterario dovuto alla capacità del racconto di stimolare in noi il ritorno del superato, ovvero l’affiorare dalla notte lontana dell’inconscio di fantasmi che credevamo scomparsi per sempre. I missili su Kiev, gli asili sventrati, il sacrificio degli innocenti, i bambini in primis, producono  in noi un effetto sinistro. Qualcosa che avevamo lasciato nel museo interiore dell’umanità, la macelleria folle della Prima e della Seconda guerra mondiale, riaffiora nelle nostre coscienze stordite dal caro energia, dall’inflazione, dai salari da fame, dalla recessione in arrivo. E facciamo fatica, giriamo la testa sempre dalla parte sbagliata, ci chiediamo com’è stato possibile finire in questo incubo.

Non è che il mondo non avesse problemi, insomma non era il migliore possibile della tradizione illuministica, ma mentre stavamo lavorando per migliorarlo, quasi quasi ce lo portano via del tutto. Dietro l’ennesimo anglicismo del nostro discorso pubblico, escalation, si nasconde la Terza guerra mondiale.

Il conflitto atomico sarà anche l’ultimo dell’homo sapiens. E c’è anche un’irresponsabile escalation semantica della parola, la si usa sempre di più, con leggerezza, fiduciosi di quella neutralità anglosassone. Allora spieghiamo bene all’opinione pubblica, agli italiani intontiti dai talk sui filo-Zelenskj e sui filo-Putin. La cosiddetta escalation è già in atto. Gli ucraini con le armi dell’Occidente stanno vincendo sul campo, ma forse al loro interno c’è qualcuno che ama la guerra almeno quanto il capo del Cremlino. Provocarlo sul suo territorio e nel suo orgoglio vuol dire rappresaglie di violenza progressiva. Ora gli inaccettabili missili sui civili, ma poi? Non abbiamo notizie chiare di quello che succede a Mosca, di quanto sia ancora forte la censura della razionalità su Thanatos, ma certo l’annuncio burocratico di un’esercitazione nucleare della Nato (dicono di routine) non ci rassicura.

Eppure qualche spiraglio c’è. Biden e Putin potrebbero vedersi al prossimo G20, intanto il Presidente americano ha cambiato il suo linguaggio, lo zar non è più un criminale assassino ma un uomo razionale che ha sbagliato i suoi calcoli. Non è un formalismo diplomatico, anche in politica estera come nella vita le parole decidono il momento, le parole sono cariche di azione, la precedono, la creano, la condizionano.

Siamo allora, come dicevamo all’inizio, quattromila battute fa, sospesi. Tra la fine possibile del mondo, e un mondo che possiamo e dobbiamo ancora salvare. Con la coscienza chiara però che niente sarà più come prima, per sempre.