Finanza e Risparmio

Risparmio a un bivio: è ora di cambiare modello

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di Mariarosaria Marchesano

Il 2022 è stato un anno che i mercati finanziari ricorderanno a lungo. Non tanto per il calo generalizzato degli indici, ma perché è stato messo in discussione il principio che vuole che quando le azioni vanno male le obbligazioni vanno bene e viceversa.

La decorrelazione tra queste due asset class è sempre stata un faro per gli investitori che per decenni sono rimasti fedeli a una composizione dei portafogli che prevede il 60 per cento in azioni e il 40 per cento in obbligazioni. Un mix utile a bilanciare il rischio di perdite. Lo scorso anno, invece, sono andate male sia le azioni che le obbligazioni, con perdite secche sui portafogli del 10-15% molto lente da recuperare anche adesso che i mercati si sono ripresi.

Così il dogma del “60-40” comincia ad essere messo in discussione da chi pensa, invece, che questa formula espone gli investitori a dei rischi significativi. Amedeo Alentorn, lead investment manager di Jupiter systematic equities, si è preso la briga di analizzare la performance di questo tipo di portafoglio andando molto indietro nel tempo, quasi di cento anni, giungendo alla conclusione che una diversificazione tra due sole asset class è diventata insufficiente per proteggersi dagli shock sui mercati. Dal 1928 al 2022, un portafoglio allocato per il 60% all’indice S&P 500 e per il 40% al rendimento del titolo del Tesoro Usa a 10 anni ha, infatti, registrato un rendimento complessivo negativo per 21 anni non consecutivi, praticamente una percentuale compresa tra un quarto e un quinto del numero totale di anni presi in considerazione. In questo lungo periodo, il 2022 è stato il terzo peggior anno per il portafoglio 60-40, preceduto dal 1931 e dal 1937.

«È abbastanza sorprendente – osserva Alentorn – che sia andato così male, perché la situazione economica del 2022 non era affatto disperata come quella della Grande Depressione degli anni ‘30 o della crisi dei mutui e delle banche del 2008». Allora perché è successo? «Due sono le ragioni principali: da un lato i prezzi delle azioni sono diventati molto volatili nella seconda metà del 2020 e per tutto il 2021; dall’altro, nella primavera del 2021 la Fed ha iniziato ad alzare i tassi d’interesse, sconvolgendo il mercato obbligazionario dopo un lungo periodo di tassi molto bassi. Il crollo del mercato azionario nel 2022 è stato accompagnato dal peggior rendimento su un anno solare (-17,8%) del Treasury Usa a 10 anni nell’intero periodo 1928-2022».

Il problema del portafoglio 60-40, secondo Jupiter, è che non è abbastanza diversificato. «Gli investitori potrebbero invece prendere in considerazione la possibilità di includere nelle loro scelte una gamma più ampia di asset class rispetto alle sole azioni e alle sole obbligazioni», dice Alentorn. Ma in che modo? Il suggerimento è di rivolgersi a fondi azionari, il cui andamento è neutrale rispetto al mercato. Si tratta di strumenti di investimento concepiti per non essere influenzati dalle oscillazioni che pesano sugli indici azionari. Se i loro rendimenti sono positivi o negativi, infatti, è grazie ad altri fattori tecnici che hanno a che fare con le modalità con cui vengono investiti e non a causa di eventi come tensioni geopolitiche, recessioni economiche o politiche monetarie.

Ma  questo punto merita un minimo di approfondimento. All’analisi di Jupiter si potrebbe aggiungere che gestire un portafoglio così detto “market neutral” può essere molto rischioso perché questi fondi tendono a essere illiquidi, il che li rende vulnerabili nel lungo periodo. Inoltre, ci possono essere perdite sul breve periodo che non possono essere compensate. La migliore raccomandazione per coloro che desiderano sviluppare una strategia di investimento con questo modello è di farlo con l’aiuto di un consulente e da soli se si ha sufficiente esperienza. Ciò, comunque, non toglie interesse all’osservazione di Jupiter sul modello 60-40 che pure ha dimostrato di non essere inattaccabile.

Intanto il MEF fa il pieno di BTP Italia

Prima Eni, poi Intesa Sanpaolo e adesso anche Mediobanca. Ormai non si contano le emissioni di bond corporate con rendimenti attesi anche superiori al 5 per cento. Nonostante le delusioni che questo settore ha riservato lo scorso anno, i risparmiatori stanno correndo a sottoscrivere la nuova generazione di obbligazioni i cui emittenti sono grandi banche e aziende italiane. Ma ad aver fatto il pienone è il Mef con il Btp Italia, l’emissione di titoli di stato indicizzati all’inflazione, le cui sottoscrizioni si sono chiuse mentre questo giornale andava in stampa. La prospettiva di ottenere un rendimento medio annuo di poco inferiore al 6 per cento nei cinque anni di durata (scadenza 2028) pur nella prospettiva di un’inflazione in discesa (questa è la stima fatta dagli esperti del settore considerando il tasso garantito del 2%, il premio fedeltà dell’8 per mille e l’adeguamento all’indice dei prezzi) ha attratto decine di migliaia di risparmiatori. Il Mef ha così chiuso con un successo superiore alle attese un’operazione che facilita la sua strategia sovranista di aumentare l’ammontare di debito pubblico nelle mani degli italiani.