Inchieste

Delocalizzazione indietro tutta: la migrazione di imprese e fornitori

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di Paola Guidi

Circa 1.650.000: tanti sono i nuovi posti di lavoro che il reshoring (o decoupling) ha creato negli Usa dal 2010. Poco si sa, invece, anzi quasi nulla per l’Europa e l’Italia. Gli Stati Uniti infatti sono l’unico Paese dove il rientro della produzione o delle forniture dall’estero – che avvenga sotto forma di nearshoring (ritorno nei Paesi vicini), backshoring (in patria) e further offshoring (modifica della delocalizzazione) – è costantemente monitorato da un centro di ricerca.

E non è vero, come scrivono i profeti della globalizzazione, che poi tutto tornerà come prima, o quasi.

Il reshoring è un trend che cresce esponenzialmente: circa 400mila di quel milione e 650mila nuovi posti di lavoro americani riguardano il solo 2022. Un totale che comprende sia il rientro di produzioni sia lo spostamento degli acquisti delle componenti di intere filiere manifatturiere e di servizi. Continuerà perché è finanziato pesantemente dai circa 400 miliardi di dollari da poco stanziati dal governo americano, che consentiranno ulteriori recuperi.

In Europa e in Italia, come detto, non esistono statistiche simili su questo positivo effetto del reshoring. Gli effetti positivi – ma anche gli ostacoli – ci sono ma nessuno li ha misurati.

Ma le tante case history registrate da un lato confermano il recupero di posti di lavoro e dall’altro, preponderante, la “non-perdita” di posti attuali. Casi che evidenziano l’immagine complessa dello scenario italiano: per esempio, il reshoring dell’industria della moda – totalizzante – data da molti anni, quello di meccanica ed elettrotecnica è più recente, quello della farmaceutica è del tutto diverso mentre nel food e nell’arredo in generale è minima, visto minima è stata la delocalizzazione.

Sono diverse le motivazioni, le modalità e i risultati. Con un dato comune: nella grande maggioranza si tratta di Pmi che, di fronte a un rientro a volte affrettato, trovano in Italia difficoltà pesanti, a partire da un regime fiscale meno favorevole. Il 23% delle imprese europee presenti in Cina – in gran parte piccole e medie – non intendono più restarci, e dismettono gli investimenti: è la percentuale più alta degli ultimi 10 anni. Lo ha comunicato di recente la Camera di Commercio dell’Ue. A far decidere molti degli più incerti è stato un estremo disagio per la rigida politica isolazionista anti Covid del gigante asiatico. Il 90% delle Pmi ha anche denunciato l’impossibilità di mantenere i contatti con la filiale cinese e fanno fare i bagagli ai manager.

“Le multinazionali si trovano in mezzo al guado e hanno più difficoltà – dichiara al Settimanale Giancarlo Emmanuel, managing director di Mercato Totale, testata di riferimento del settore elettrotecnico ed elettronico – mentre le piccole e medie aziende come sempre hanno più agilità di movimento e possono addirittura sperare di affrancarsi o quasi da queste problematiche”.

Tant’è vero che le multinazionali Usa si stanno trasformando in conglomerate nazionali proprio perché poco flessibili.

“Però il danno creato negli ultimi decenni è gravissimo – sottolinea Emmanuel – e tornare indietro non è semplice, anche perché è lecito dubitare della buona fede di chi sta operando questo ravvedimento. La perdita di competenze è stata non grave ma gravissima: manca il personale qualificato a tutti i livelli, dagli ingegneri agli operai”.

Secondo una recente ricerca del CsC (Centro Studi Confindustria) e di Re4It su un campione di 762 imprese (in gran parte Pmi), ben l’84% non ha mai delocalizzato, ma il 73% acquista da fornitori esteri i materiali necessari per il prodotto finito. Per esempio, il comparto del legno importa l’80% della materia prima. Ancora, il 23% ha deciso di tornare a  fornitori italiani negli ultimi cinque anni in diverse percentuali e di questi il 10% ha scelto di non fare più acquisti fuori dall’Italia.

Le aziende del campione che, dopo l’offshoring, hanno riportato gli acquisti o parte della produzione in Italia, hanno dichiarato di essere decisamente soddisfatte perché è migliorata la qualità globale dell’attività aziendale. Cioè: prima di tutto viene la qualità. Risposta che rivela quanto sia mutevole lo scenario della ricollocazione. I rientri durante e subito dopo l’esplosione del Covid rispondevano quasi esclusivamente a esigenze di carattere economico: risparmiare a tutti i costi. Motivi comunque globalizzati che mantengono la loro influenza ma che vanno attentamente seguiti poiché, rispetto anche solo a qualche mese fa, hanno già subìto aggiustamenti.

Per quel che riguarda l’Italia, in soli due anni lo scenario è cambiato. Le nostre esportazioni hanno avuto balzi consistenti grazie all’attrattiva esercitata in tutti i continenti dal brand “made in Italy”. Costi quello che costi, i compratori esteri domandano sempre di più prodotti italiani. I dati forniti da Sace e Prometeia segnalano da tempo che sempre di più le importazioni del made in Italy si va vanno spostando verso prodotti di fascia medio-alta e alta non solo nel food, nella moda, nel design ma anche nella meccanica e nell’elettrotecnica.

Il caso della Bianchi, dal 1997 passata agli svedesi  è illuminante. La fabbrica di biciclette era stata trasferita a Taiwan conservando a Treviglio (BG) solo la storica sede; ma da tempo lo spostamento evidenziava gravi lacune, con una difettosità elevata nei prodotti cui si sono aggiunti i problemi causati dalla catena del valore troppo lunga e l’aumento dei costi. Così è stato deciso di costruire una nuovissima fabbrica proprio a Treviglio. “La nuova sede è sulla stessa area che ospita oggi il quartier generale – ha dichiarato Fabrizio Scalfarotto, ad dal 2018 – su 30mila metri quadrati dei quali la fabbrica ne occuperà 17mila e avrà 250 dipendenti. E questo nell’ambito di un più ampio progetto di rinnovamento e di valorizzazione del made in Italy”. La fabbrica riparte proprio questo anno e gli investimenti sono notevoli: 40 milioni.

Questo dà un’idea delle possibili difficoltà e dei costi per chi intende riportare la produzione in Italia. Come ha sottolineato Emmanuel, gli ostacoli al reshoring per le Pmi riguardano soprattutto il reperimento del personale specializzato. Per formare i giovani under 35 anni da assumere, la stessa Bianchi ha varato una Academy in collaborazione con il Politecnico di Milano ma ha anche richiamato ex dipendenti perché – spiega Scalfarotto – nulla vale di più delle esperienze pratiche della fabbrica, quella italiana degli anni d’oro.

I costi energetici e delle materie prime in crescita indicano una strada: più è vicina la fabbrica ai mercati di riferimento, meglio è. E l’esperienza pluridecennale dei distretti italiani di fornitura può essere di aiuto. Ma con un problema di fondo: parecchi piccoli componentisti con specializzazioni e pratiche uniche hanno chiuso a causa della delocalizzazione selvaggia degli ultimi decenni.

A pesare nelle scelte aziendali c’è anche il blocco prolungato della logistica, con l’interruzione delle catene produttive non solo dall’Asia, e con costi in crescita, senza contare gli incidenti che rallentano il flusso nel Canale di Suez. Un container via mare dalla Cina che nel 2019 costava 9mila dollari, aveva superato i 18-20mila nel periodo 2020-2021 e solo nel secondo semestre del 2022 i prezzi di noleggio marittimo sono tornati a scendere; ma i tempi rimangono incerti e lunghissimi. La principale causa dei forti cali di vendite nel Nord America dei big mondiali Whirlpool ed Electrolux, ad esempio, per la prima volta è dovuta al fatto che l’arrivo nei porti sul Pacifico delle merci ordinate e la loro distribuzione tramite tir nel Paese hanno subìto drammatici ritardi. Il Covid ha tra l’altro decimato migliaia di autisti dei tir e del personale dei trasporti e delle dogane in tutto il mondo. E questo ha favorito le fabbriche italiane dei due big, che hanno aumentato la produzione e l’export verso i mercati nordamericani, non più forniti dalle mega fabbriche cinesi.

Si aggiunga la penuria immane e duratura di componentistica hi tech e tradizionale (dal chip alla brugola, dalle gomme ai display, dal chiodo alle schede elettroniche) anche per l’aumento a due cifre della domanda mondiale di merci nel 2021-2022. Domanda che a causa della crisi è di recente diminuita, ma le fabbriche di chip nelle quali America e Europa stanno investendo hanno tempi lunghi. Per un impianto che produce microprocessori (determinanti per il 70 per cento nella vita delle persone) occorrono 3 anni, alcuni miliardi di dollari, tre grandi Boeing per trasportare le linee in loco e poi, dopo e per sempre, un’immensa quantità di acqua che non c’è più.

Sono tante le variabili che spingono le imprese a un ripensamento delle strategie di approvvigionamento e di sbocco. Le emergenze ambientali diventeranno una costante che ridurrà drasticamente lunghi percorsi logistici. Ma al tempo stesso renderà assai costoso, per le Pmi in rientro, realizzare siti produttivi e logistica adatti alle nuove emergenze, e alla necessità di costruire ex novo edifici con energie alternative. E ancora l’incertezza politica generale: la guerra Nato-Russia in Ukraìna, scoraggia gli investitori a finanziare aziende molto grandi e il reshoring in Est Europa. Le tensioni crescenti tra Usa e Cina su Taiwan rendono freddi i circoli di Washington sul finanziamento di nuove mega-fabbriche di chip nell’isola.

Tra i casi eclatanti di rilocalizzazione è quello delle fabbrica cinese del noto brand Gaggia (macchine da caffè) che, insieme alla Saeco era stato venduto dalla Philips nel 2021 alla multinazionale cinese Hillhouse Capital Management. Che ha fatto rientrare nel polo mondiale del caffè di Gaggio Montano (Bologna), dove erano comunque rimaste le linee della fascia alta, anche la produzione delle macchine di fascia economica: “Perché in tutto il mondo e ancora di più in Cina il made in Italy iconico della moda, del design, del food, della meccanica si sta affermando. E solo con questa garanzia i distributori, gli importatori e i clienti accettano prezzi elevati”.

Anche il Messico sta conoscendo un’autentica corsa delle multinazionali Usa scappate dall’Asia e i big cinesi hanno già aperto rapidamente filiali e fabbriche. Così come hanno fatto per esempio Hisense, Haier e Midea in Europa. Dal 2017 il governo di Pechino ha ordinato alle sue multinazionali di delocalizzare in Africa le manifatture tessili, hi tech, automobilistiche: oggi nel continente, in piena espansione economica, si trova il 35-40% della capacità produttiva totale dei big cinesi.

Tornando all’Italia, il programma Torino Reshoring ha l’obiettivo diriavvicinare al territorio aziende italo/estere con un focus su R&S: il primo risultato è stato nel 2021 l’apertura degli uffici di Skypersonic, azienda italo-americana di droni speciali. E poi è tornata Sheeva, che opera nelle tecnologie innovative per la mobilità urbana. La guerra in Ucraina ha convinto Natuzzi a riportare in Puglia le lavorazioni degli imbottiti  che erano state installate in Romania. ”Ma con un aumento dei costi del 27 per cento ed è per questo che è necessario – afferma Natuzzi – un taglio degli oneri sociali”.

Importante il rientro di tutta la produzione della Vimec, che ha trasportato in Emilia Romagna le linee di produzione di ascensori e montascale dopo decenni di delocalizzazione in Cina: i controlli di qualità in questo settore sono fondamentali e l’indice di difettosità del made in China causa problemi gravi. La Haier, numero 1 mondiale degli elettrodomestici, ha stanziato dieci milioni di investimenti per potenziare nel 2021 la storica fabbrica di lavatrici della Candy (acquisita dalla famiglia Fumagalli) a Brugherio, in Brianza. La Candy, tra l’altro, aveva da anni esternalizzato molte produzioni in Cina e in est Europa incontrando notevoli problemi di affidabilità dei prodotti. E anche la moda da anni è in reshoring spinto: Prada, Ferragamo, Zegna, Ferragamo, Bottega Veneta, Geox, Benetton e altri ancora da anni – sull’onda della richieste dei mercati esteri che vogliono, e pagano caro, il vero made in Italy – hanno lasciato l’Asia e i Paesi dell’est Europa.

La qualità italiana è inimitabile.