Inchieste

Europa e Usa, primi segnali positivi nella lotta all’inflazione

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di Attilio Geroni

Il 2022 passerà alla storia come l’anno in cui l’inflazione, da fenomeno “transitorio”, è diventato un fenomeno decisamente meno temporaneo di quanto non avessero previsto i banchieri centrali, al di là e al di qua dell’Atlantico.

Come si presenta il 2023 sul fronte dei prezzi? Con grande incertezza e ritmi diversi tra Eurozona e Stati Uniti, con l’impressione che questi ultimi potranno uscire dalla spirale dei rialzi, e delle strette monetarie per contenerli e poi invertire la tendenza, prima dell’Europa, dove, almeno nel primo semestre di quest’anno, gli effetti si preannunciano pesanti su consumatori e imprese, più di quanto non siano stati finora.

Di solito l’aumento dei tassi d’interesse comincia a produrre un impatto significativo sulla vita reale di famiglie e aziende con circa nove mesi di ritardo, in media, dal momento del rialzo.

Il ciclo della Banca centrale europea è cominciato a luglio e l’ultima stretta, di 50 punti base, risale al 15 dicembre scorso: i tassi sulle operazioni di rifinanziamento principali della Bce sono ora al 2,50 per cento e altri rialzi sono all’orizzonte per l’intero 2023, ha lasciato intendere la presidente Christine Lagarde nell’ultima conferenza stampa. L’istituto di Francoforte nelle sue ultime proiezioni macroeconomiche spiega che la strada della normalizzazione, cioè di un ritorno dell’inflazione ai livelli di riferimento del 2%, sarà piuttosto lunga e spalmata nell’arco del prossimo triennio: al 3,6% annuo alla fine dell’ultimo trimestre; al 3,4% entro la fine del 2024; al 2,3% entro la fine del 2025. In assenza di ulteriori shock esogeni, il livello desiderato non si raggiungerà prima del 2026.

Sia nell’Eurozona sia negli Stati Uniti si cominciano ad avvertire segnali piuttosto concreti di un raggiungimento del picco d’inflazione, anche se questi sono più evidenti negli Usa, dove la componente della domanda ha avuto un effetto importante sull’aumento dei prezzi, più importante di quanto non sia stato tra i Paesi che aderiscono all’Unione monetaria europea.

Attualmente l’inflazione negli Usa è di poco superiore al 7% e a fine novembre ha registrato l’incremento più basso dell’ultimo anno: cosa ancora più importante, è in discesa anche l’inflazione core, di fondo, depurata dagli elementi più volatili come i prezzi dell’energia e dei beni alimentari (al 6% dal 6,3% precedente). È un aspetto importante perché l’inflazione core è una misura più precisa dell’incontro tra domanda e offerta ed è soprattutto quella a dettare le decisioni di politica monetaria.

Perché i segnali incoraggianti diventino una traiettoria consolidata, bisognerà aspettare i prossimi mesi, quando saranno appunto più evidenti gli effetti della stretta monetaria da parte delle banche centrali. Nell’Eurozona l’inflazione a dicembre è di due punti percentuali superiore a quella americana (9,2%, in discesa dal 10,1% di novembre) ma la core è aumentata rispetto al mese precedente dal 5,0 al 5,2 per cento. Segno, quest’ultimo, che indica come anche la domanda, a fronte di una strozzatura dell’offerta senza precedenti, nell’Eurozona abbia avuto un certo ruolo nell’aumento dei prezzi.

Per chiarire ulteriormente: la fiammata dell’inflazione in Europa è stata dovuta soprattutto (ma non solo) al rincaro dei prezzi energetici, successivamente esacerbato dall’invasione russa dell’Ucraina e dalle sanzioni contro gas e petrolio russi, mentre quella americana è legata soprattutto all’esplosione della domanda dopo la fine del lockdown e a un mercato del lavoro dove la disoccupazione resta ai minimi (3,7 per cento).

Nei prossimi mesi sapremo come reagiranno le due più ricche economie al mondo (quella americana e quella europea) al rialzo dei tassi. La Bce prevede per l’Eurozona una recessione breve e non profonda; negli Stati Uniti invece non si esclude un soft landing.

L’Unione monetaria europea è eterogenea per definizione e al suo interno vi sono Stati con differenziali d’inflazione spesso importanti tra loro, con i Baltici a doppia cifra e con punte da 20%, la Francia al di sotto del 6%, l’Italia oltre il 10% e la Germania all’8,6 per cento. La Banca centrale europea nell’ultimo bollettino mensile ha rilevato che nell’Eurozona si attendono forti aumenti salariali nei prossimi mesi, ma che questi aumenti non si tradurranno in guadagni reali a causa degli incrementi attesi dell’inflazione.

Una dichiarazione “neutrale” sulle dinamiche del costo del lavoro che indica come la modalità della Bce sia guidata in questo momento dagli ultimi dati disponibili, come del resto accade con la Fed. Difficile sbilanciarsi verso un orizzonte che vada oltre il semestre: quello in cui siamo appena entrati sarà difficile e vedrà nuove strette nonostante il possibile/probabile raggiungimento del picco, molto stupore e frustrazione tra consumatori e imprese per il tempo che passa tra le schiarite sui numeri e quelle della vita reale.