Inchieste

I ritardi non bastavano, ora tocca restituire i soldi

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di Giorgio Costa

“Per salvare l’azienda non ci stiamo pagando gli stipendi da qualche mese, ma non basta. Se la legge non cambia, saremo costretti a chiudere”. La denuncia arriva da Giorgio Sandrolini Cortesi, della ditta Lanzoni di Bologna che dal 1932 fabbrica dispositivi medici e dal 1980 ha avviato la produzione di apparecchi per il monitoraggio di particelle biologiche disperse in atmosfera di cui è leader di settore a livello mondiale. E la legge è il cosiddetto decreto Aiuti bis (decreto legge 115/2022 che porta le firme dell’ex presidente del Consiglio, Mario Draghi, e del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella), che in questo caso è un aiuto al bilancio delle Regioni e non certo delle imprese che rischia di mandare gambe all’aria.

Non sono solo i tempi di pagamento a mandare in difficoltà le imprese: capita anche che allo scadere dei 90 giorni le fatture tornino indietro per un cavillo e poi, riemesse, ricominci il calcolo dei 90 giorni, portando a 180 giorni il tempo di pagamento reale.

C’è anche un  meccanismo tanto paradossale da non poter sembrare vero, che prevede che siano i fornitori (di materiale sanitario e farmaceutico) a pagare i disavanzi delle spese sanitarie delle Regioni verificatesi negli anni 2015-2018, che ammontano nel complesso a 2,1 miliardi.

Sarebbe come se i negozianti chiedessero alla Ferrero, che ha venduto loro la Nutella, di ripagare eventuali ammanchi nella gestione del negozio.

E se entro la metà di gennaio 2023, le aziende interessate non verseranno le quote di ripiano di propria competenza per il periodo di riferimento, sarà possibile compensare i debiti per l’acquisto di dispositivi medici con i crediti dell’azienda inadempiente, fino a concorrenza dell’ammontare dovuto a titolo di ripiano.

Così stanno per partire i ricorsi al Tar, contestando la legittimità stessa del Decreto, eventuali profili di incostituzionalità della norma in questione così come l’illegittima applicazione retroattiva della misura, salvo poi impugnare, con ricorso per motivi aggiunti, gli atti e provvedimenti che saranno successivamente adottati, compresi quelli destinati a incidere in via diretta sulle singole aziende.

«Al di là della legittimità o meno della richiesta, si tratta di pagare somme – spiega Sandrolini Cortesi – che ci mandano a gambe all’aria, e con noi un intero settore che peraltro è stato fondamentale nel periodo del Covid, quando abbiamo garantito l’approvvigionamento e la manutenzione dei macchinari mettendo a repentaglio la nostra personale salute».

«Come federazione che rappresenta le PMI in Sanità – ha dichiarato il presidente di Fifo, Massimo Riem – siamo assolutamente d’accordo a perseguire una spesa pubblica razionale e oculata, ma questo obiettivo non può passare per una deresponsabilizzazione degli amministratori e un tracollo del tessuto delle Pmi italiane. Tutto ciò, poi, potrebbe tradursi in una mancanza di forniture di dispositivi medici essenziali per la cura dei pazienti, e dei servizi di assistenza tecnica agli ospedali, la cui importanza si è evidenziata durante la recente pandemia».

Con questa normativa, secondo Fifo, si mette a rischio il tessuto dei fornitori ospedalieri, composto per il 95% da micro, piccole e medie imprese, con oltre 100mila lavoratori coinvolti. I contratti di forniture di dispositivi medici vengono stipulati al termine di gare pubbliche che hanno già l’obiettivo di contenere i costi della spesa pubblica. La restituzione del 50% della spesa alle Regioni incide sui bilanci delle imprese, che non possono poi sottrarsi dall’eseguire le forniture di beni o servizi, una volta vinta una gara pubblica. Secondo Fifo, solo per il quinquennio 2015-2020 le aziende dovrebbero restituire in media somme pari a metà del proprio fatturato annuo (circa 3,6 miliardi di euro), con ingenti difficoltà fiscali, trattandosi oltretutto di bilanci già depositati.