Inchieste

Lavoro: ancora lontane domanda e offerta

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di Laura Siviero

Chi si poteva immaginare un rimbalzo del posto fisso in Italia di tale entità, come quello segnalato dal rapporto ISTAT, ai massimi dal ’97? In un periodo storico in cui il Covid ha lasciato intravedere una modalità più autonoma di lavoro, più nomade, più familiare, più fluida, a vincere è stato davvero il tempo indeterminato?

A guardare dentro i dati positivi usciti nei giorni scorsi restano ancora delle ombre: i motivi dell’exploit, il confronto con gli altri Paesi dell’Eurozona che ci lascia nella polvere e le proiezioni occupazionali per il 2023, poco incoraggianti.

Le aziende, che si sono alleggerite di personale durante il Covid, sono corse ai ripari con la ripresa, ma non trovano le competenze di cui hanno bisogno e si sono limitate a convertire i contratti. I centri per l’impiego, evoluzione degli uffici di collocamento, restano al momento ancora più dei passacarte, piuttosto che dei job placer, le aziende si aggiustano a far selezione da sole o attraverso agenzie private che garantiscono maggiore professionalità.

Il problema non è solo l’orientamento, ma il mismatch tra domanda e offerta. Spesso chi si offre per un lavoro, non ha le competenze richieste, informatiche, tecniche o green, né le soft skills, sempre più ricercate. I soldi per la filiera lunga della formazione ci sono, soprattutto ora con il PNRR, bisogna vedere come li si farà fruttare.

L’ISTAT ha comunicato che a ottobre 2022 è proseguita la crescita dell’occupazione (già registrata a settembre), per effetto dell’aumento dei contratti permanenti.

Rispetto a ottobre 2021, l’incremento è pari a quasi 500mila occupati, determinato dall’aumento dei dipendenti che ammontano a circa 18,2 milioni. In particolare, contro ogni tendenza recente, a goderne sono gli ultracinquantenni. Rispetto al mese precedente (ottobre 2022), il tasso di occupazione è salito di +0,4% e si attesta al 60,5%, valore record dal 1977, primo anno della serie storica, soprattutto per la mezza età, mentre calano le assunzioni per i più giovani, i dipendenti a termine e gli autonomi.

Anche la disoccupazione registra un lieve miglioramento, in discesa al 7,8% (rispetto al mese precedente che era al 7,9%, pur restando sempre più alto dell’Eurozona che segna il 6,6%).

E il tasso di inattività, ossia coloro che non sono occupati e neanche cercano lavoro, che scende al 34,3% (-0,2 punti) rispetto al mese di ottobre.

Nel 2021, secondo l’indagine condotta da Statista, l’Italia si trovava al terzo posto per numero di inattivi in Europa, dopo Turchia e Montenegro, con il 37,1 %.

Ma quali sono i fattori che hanno inciso a determinare questo andamento? Mette in guardia dal troppo entusiasmo la Cgil che vede nei dati una stortura analitica: «Il rimbalzo non è avvenuto ora – precisa Corrado Ezio Barachetti, coordinatore nazionale mercato lavoro – i dati sono uguali a quelli del secondo trimestre del 2022 e sono imputabili alla ripresa post Covid. Sono cinque mesi che l’occupazione non cresce. Deve preoccupare la legge di bilancio dove lavoro e occupazione sono spariti».

Dietro la crescita dei numeri c’è anche il rientro dalla cassa integrazione che sfalsa i dati.

«Sono due le spinte – chiarisce Francesco Seghezzi, Presidente Fondazione Adapt – da un lato quella determinata da come sono costruite le statistiche, che ora considerano inattivi i lavoratori che si trovano in cassa da tre mesi. E dall’altro c’è un forte sbalzo di inattivi a tempo indeterminato nell’ultimo mese, a favore dei cinquantenni, che fa pensare a un rientro dalla cassa integrazione. C’è anche sicuramente una stabilizzazione di altri contratti a scadenza in rapporti a tempo indeterminato. Non vedo grande dinamismo perché i lavoratori a tempo determinato non crescono. Questo mese sono i giovani a pagarla. Rileviamo però che oggi in Italia c’è il più alto numero di occupati di sempre. Altro è il confronto con i Paesi europei».

A guardare fuori dalla finestra, l’Italia resta ancora agli ultimi posti per occupazione in Europa. I dati del 2021 registravano il primato dei Paesi Bassi (80,1%), seguiti da Germania (75,8%), Danimarca e Malta (entrambe con il 75,5%). Agli ultimi posti invece Grecia (57,2%), Italia (58,2%) e Romania (61,9%). A livello regionale, la quota più elevata la riporta la regione finlandese dell’Åland, con un tasso di occupazione pari all’84,2%. Un valore più che doppio rispetto a quello della Sicilia, che detiene invece il record negativo a livello europeo.

L’Italia ancora una volta si caratterizza per una marcata disomogeneità da regione a regione. Tra la Sicilia e la provincia autonoma di Bolzano (che detiene il record italiano) c’è una differenza di quasi 30 punti percentuali. Bolzano però con l’Emilia Romagna (68,5%) supera la media europea. Tutte le altre 18 più Trento si trovano al di sotto, con 9 regioni, tra cui tutte quelle del Mezzogiorno, che non arrivano al 60%.

E le previsioni per l’anno prossimo non sono rosee.

Secondo un rapporto dell’associazione artigiani e piccole imprese di Mestre (Cgia), a causa dell’imminente recessione nel 2023 rischiamo di avere 63mila disoccupati in più e il tasso dei senza lavoro che tornerà ai livelli del 2011. La crescita del Pil e dei consumi rispetto al 2022 è destinata ad azzerarsi e il tasso di disoccupazione è destinato a salire all’8,4% (con il Centro Sud più colpito).

I comparti manifatturieri, soprattutto quelli energivori e legati alla domanda interna potrebbero subire dei contraccolpi occupazionali, mentre le imprese più attive nei mercati globali tra cui quelle che operano nella metalmeccanica, nei macchinari, nell’alimentare-bevande e nella moda saranno meno esposte.

Stando al sentiment di molti esperti e di altrettanti imprenditori, altre difficoltà interesseranno i trasporti, la filiera automobilistica e l’edilizia: quest’ultima penalizzata dalla modifica legislativa relativa al superbonus, potrebbe registrare le perdite di posti di lavoro più significative. Se è vero che ci sarà una flessione nell’offerta di nuovi posti di lavoro da parte delle aziende, è anche vero che le imprese faticano sempre di più a trovare figure competenti e skillate un po’ in tutti i settori.

I Centri per l’impiego continuano a essere considerati dalle imprese più dei centri per gli «espletamenti amministrativi» che dei partner nella ricerca e formazione del personale, poco affidabili nel reperimento dei candidati e nella relativa analisi delle competenze.

I dinosauri del collocamento hanno cercato di rifarsi il look già nel 1997, cambiando nome e aggiungendo servizi per l’incontro domanda-offerta, proposte di inserimento lavorativo e formativo, colloqui di orientamento e programmi di riqualificazione professionale.

L’idea era che diventassero dei punti di incontro tra aziende e lavoratori con lo scopo di contrastare il problema della disoccupazione e rispondere alle esigenze di reperimento del personale. Ma non è cambiato molto. Nel 2003 entra in vigore un decreto legge che sottolinea ancora una volta l’importanza che i Centri per l’impiego agevolassero il match tra domanda e offerta a contrasto della disoccupazione giovanile e di lunga durata.

Alcune modifiche amministrative sono state introdotte, ma nella sostanza non hanno subito la trasformazione auspicata.

Con l’introduzione del reddito di cittadinanza viene assegnato ai Centri per l’impiego un ruolo nuovo nell’erogazione dei servizi di collocamento al lavoro dei beneficiari. Ma gli uffici sono 551 e 7.772 gli operatori, si legge nel rapporto ANPAL 2021, il personale assegnato è dunque sottodimensionato rispetto al lavoro atteso e spesso poco qualificato. Solo il 30% è laureato e la maggior parte non con un diploma nelle materie giuste per erogare i servizi di job placement.

Il PNRR ha dato una spinta con l’attribuzione dei GOL, il Programma nazionale per l’occupabilità dei lavoratori (DM 5 novembre 2021), ai Centri per l’impiego. Bisognerà attendere il Rapporto ANPAL 2022 (già in atto) che monitora se è avvenuto il cambio di passo, prendendo in esame i servizi erogati, l’organizzazione del personale e delle strutture e infrastrutture logistiche e informatiche. Forse qualcosa sta cambiando ma i tempi sono più lunghi di quelli produttivi delle aziende.

Il rilancio dei voucher, decisivi per impieghi brevi

Intanto tornano i voucher per i lavori occasionali e stagionali. Introdotti dalla legge Biagi nel 2003, aboliti nel 2017 dal governo Gentiloni, rientrati ma depotenziati, con il governo Conte. Oggi, i buoni lavoro sono stati reintrodotti in grande spolvero nella Legge di bilancio con l’obiettivo di dare uno strumento per regolarizzare i lavori a breve termine, accompagnati da severi controlli.

Dal primo gennaio potranno essere utilizzati nell’agricoltura, nella ristorazione, nel settore alberghiero, nel campo della cura della persona e per i lavori domestici. Varranno 10 euro lordi l’ora (il lavoratore ne percepirà 7,5), fino a un massimo di 10mila euro l’anno.

Ma piacciono alle imprese?

«Le nostre aziende li utilizzano», spiega Riccardo Giovani, direttore Politiche Lavoro di Confartigianato nazionale. «Non si tratta di far crescere lo sfruttamento dei lavoratori, attraverso il precariato, come è stato detto spesso. Come ha dimostrato la vicenda sui contratti a termine, che non ha prodotto precarietà, poiché le aziende non hanno necessità di avere personale precario, i voucher rispondono a esigenze di lavori di breve durata, lavori interstiziali. Se non ci fosse lo strumento dei voucher non verrebbero coperti. Inoltre consentono a tante persone di entrare in contatto con il mondo del lavoro e poi magari ottenere dei contratti a termine. Per quei settori che hanno picchi di produzione o legati alla stagionalità, poi, sono fondamentali, come per le attività legate al settore del turismo».

Il rischio è cadere nell’uso smodato, come spesso è stato evidenziato, saranno necessari tutti «i controlli molto rigidi, per prevenire storture», previsti dalla premier Meloni.