Inchieste

PNRR, la palla al piede degli Enti locali

Scritto il

di Veronica Schiavone

“All in” sul PNRR. Sul tavolo del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il governo Meloni nel 2023 si giocherà tutto. Messi in sicurezza gli obiettivi per il 2022 (anche grazie all’eredità lasciata dal governo Draghi) che frutteranno all’Italia la terza rata di finanziamenti pari a 19 miliardi di euro, l’anno prossimo il nuovo esecutivo è atteso a un cambio di passo sul Recovery Plan.

Il 2023 dovrà essere l’anno della messa a terra dei progetti, della spesa dei fondi, della realizzazione delle opere, dello snellimento della governance, dell’accelerazione delle gare d’appalto, del maggiore coinvolgimento dei Comuni, principali soggetti attuatori del Piano con oltre 40 miliardi di fondi da spendere.

La cabina di regia, riunita la scorsa settimana dal ministro Raffaele Fitto, ha certificato il superamento di 40 obiettivi (tra milestone e target) sui 55 previsti entro il 31 dicembre 2022. Una notizia agrodolce se si pensa che 21 di questi obiettivi erano stati già raggiunti e consegnati al nuovo governo da Mario Draghi. Nei prossimi dieci giorni il governo dovrà portarne a case altri 15. Palazzo Chigi ha assicurato che si tratta di target «avviati e in corso di finalizzazione», ma è evidente come l’esecutivo sia arrivato alla scadenza di fine anno col fiatone. Questa settimana, dopo le interlocuzioni avute nei giorni scorsi, il governo avrà un nuovo confronto con la commissione europea per iniziare a progettare il futuro.

Perché, come detto, il 2023 sarà il vero banco di prova per il PNRR. Gli obiettivi da centrare saranno 96, di cui 43 milestone (quindi obiettivi qualitativi come per esempio atti normativi o amministrativi) e 53 target (obiettivi quantitativi come opere, incremento dei posti negli asili nido o degli alloggi universitari). Dall’avvio del Recovery Plan nel 2021, l’Italia sarà per la prima volta chiamata a passare dalle parole ai fatti, dalle riforme ai progetti, dai bandi alle opere. E man mano che ci si avvicina alla scadenza del 2026 il compito diventerà sempre più arduo perché per le caratteristiche stesse del Pnrr i target sono destinati a crescere di conseguenza (si veda tabella in pagina). Nel 2021 erano solo due, nel 2022 sono stati 17, nel 2023 saranno 53 per poi salire a quota 68 nel 2024, 60 nel 2025 e 114 nel 2026.

È quella che ormai, con un’espressione forse un po’ abusata, gli esperti del settore chiamano “messa a terra del piano”. Una messa a terra che per non impantanarsi nelle sabbie mobili della burocrazia italiana dovrà affrontare (e superare) una lunga serie di criticità. Vediamole.

I soldi ci sono ma non vengono spesi

Secondo i piani originari, l’Italia avrebbe dovuto spendere entro la fine di quest’anno 41,4 miliardi in interventi legati al PNRR. Tali stime sono state già tagliate al ribasso nel Def di aprile (33,7 miliardi) e la Nadef di ottobre ha rifatto ancora i calcoli fermando il conto di fine anno a 20,5 miliardi, ossia 13,2 miliardi in meno rispetto all’ipotesi di aprile 2022 e 20,9 in meno rispetto alla previsione iniziale. Nella premessa alla Nadef, l’ex ministro dell’economia Daniele Franco ha chiaramente detto che la ragione di queste stime al ribasso è da ricercarsi nel ritardato avvio di alcuni progetti e nell’impennata dei costi delle opere pubbliche. Dunque, i problemi di spesa erano iniziati già con il governo Draghi e sarebbe stato illusorio sperare che in pochi mesi le cose potessero cambiare.

La Commissione europea, nel recente parere sulla Manovra diffuso qualche giorno fa, ha richiamato il nostro Paese al rispetto dei programmi di spesa. Perché per centrare gli obiettivi del PNRR non basta solamente essere in regola con milestone e target: alla fine i soldi bisogna spenderli. E il motivo per cui i soldi non si spendono è da ricercare nelle difficoltà degli enti locali.

Il caro materiali e il caro energia stanno incidendo negativamente sull’attuazione del PNRR a livello locale. E lo dimostra il fatto che il numero dei bandi non aumenta. Nei primi undici mesi del 2022 il numero delle procedure bandite dai comuni è pressoché identico a quello del 2021. Il che fa pensare che alla fine dell’anno il numero di gare non si discosterà in modo rilevante dalla soglia raggiunta nel 2021 quando la Banca dati nazionale dei contratti pubblici tenuta dall’Anac ha censito 213.131 Cig (Codici identificativi gara). A ottobre il Mef ha comunicato di aver assegnato alle amministrazioni comunali 29 miliardi, ma se tali risorse fossero state tutte spese ci sarebbe stato un incremento degli investimenti comunali in opere pubbliche pari a quattro volte. Cosa che invece non è accaduta. In pratica, finora, è come se il PNRR (e la sua spinta propulsiva) non ci fosse mai stato.

Il caro materiali

A livello locale, quindi, il Recovery plan sta partendo col freno a mano tirato. Le cause? Il caro materiali sta incidendo moltissimo. A questo scopo il governo Draghi aveva istituito (con il dl 50/2022) un Fondo di 1,5 miliardi per compensare gli aumenti dei prezzi dei materiali relativi agli interventi legati al PNRR al Piano nazionale per gli investimenti complementari avviati successivamente al 18 maggio 2022 e fino al 31 dicembre 2022. La Manovra di bilancio 2023 del governo Meloni, accogliendo le richieste degli enti locali e in particolare dei Comuni, ha rifinanziato il fondo per tutto l’orizzonte temporale del PNRR stanziando in totale 10 miliardi di euro fino al 2027 per fronteggiare l’aumento del costo dei materiali per le opere pubbliche.

Gli enti locali, attuatori di progetti finanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza e dal Piano nazionale per gli investimenti complementari, potranno ricevere in aggiunta alla risorse riconosciute assegnate, la pre-assegnazione di un contributo pari al 10% dell’importo dell’opera da realizzare. Le risorse ammontano a 500 milioni di euro per il 2023, destinati a diventare 1.000 nel 2024, 2.000 nel 2025, 3.000 nel 2026 e 3.500 nel 2027.

Governance troppo accentrata sul Mef

Il problema della governance, troppo accentrata sul Mef e sulla Ragioneria generale dello Stato, è un altro dei terreni impervi in cui si è incagliata in questi mesi la macchina attuativa del Piano. Gli enti locali da tempo lamentano la difficoltà a interfacciarsi con i ministeri (che staccano gli assegni necessari a finanziare le opere) e chiedono di poter essere direttamente assegnatari delle risorse. Ma la governance del Piano, così come disegnata dal governo Draghi, lascia pochi margini di manovra. Per esempio, i dirigenti alla guida di queste strutture non rientrano nelle categorie per cui è previsto il meccanismo dello spoils system e sembrano destinati a rimanere al proprio posto anche col governo Meloni.

Inoltre, i poteri sostitutivi verso le amministrazioni inadempienti vengono considerati troppo blandi. Motivo per cui il governo starebbe lavorando a un decreto per riportare molte competenze a palazzo Chigi e disporre il commissariamento degli enti che non rispettano i tempi delle opere. Il premier Giorgia Meloni, sul punto, è stata chiara: «Sarà inevitabile nel 2023 cambiare qualcosa per rendere più celere e più fluida la capacità di utilizzo dei fondi».

Mentre il ministro con delega al Recovery, Raffaele Fitto, sta lavorando a una armonizzazione del PNRR con i fondi di sviluppo e coesione, spesi solo in parte per il settennato 2014-2021. Un tema, quello dell’incapacità dell’Italia a spendere i fondi Ue, che riguarda soprattutto le regioni del Sud.

Il PNRR prevede che almeno il 40% delle risorse europee vada al Mezzogiorno d’Italia. Ma il Dipartimento per le politiche di coesione di palazzo Chigi ha certificato che al 30 giugno la quota di investimenti del PNRR destinati a interventi nelle regioni del Mezzogiorno si è fermata al 34%. C’è quindi una evidente difficoltà da parte degli enti del Sud ad attivare procedure per spendere i soldi. Nel senso che i soldi arrivano ma non vengono spesi, oppure vengono spesi male finendo in mille rivoli inutili.

Il problema, ha assicurato la scorsa settimana Fitto, «è allo studio del governo. Dobbiamo uscire da una logica per la quale i programmi di intervento diventano un’occasione per polverizzare la spesa, perché quello non è più un intervento strategico, ma un investimento che quasi sostituisce la spesa ordinaria e quindi porta in una direzione assolutamente sbagliata. Vanno invece individuati pochi obiettivi, con dei cronoprogrammi chiari. Questa è un’altra strategia che metteremo in campo con il Governo ma anche e soprattutto con i presidenti delle Regioni e i sindaci perché anche loro sono parte importante dell’attuazione degli interventi”.

Il timing, i fondi e le 226 misure da varare

Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza o Recovery and Resilience Plan) è il piano preparato dall’Italia per rilanciare l’economia dopo il Covid 19. Il PNRR fa parte del programma Ue Next Generation EU, un fondo da 750 miliardi di euro per la ripresa europea dopo la pandemia. All’Italia è stata assegnata la quota maggiore di risorse: 191,5 miliardi (70 in sovvenzioni a fondo perduto e 121 in prestiti) a cui si aggiungono 30,6 miliardi integrati dall’Italia con il Piano nazionale per gli investimenti complementari. In totale per il nostro Paese ci sono dunque 222 miliardi che dovranno mettere l’Italia nelle condizioni di colmare, grazie ai fondi del post pandemia, i gap infrastrutturali, tecnologici, sociali, ambientali rispetto al resto d’Europa.

Per realizzare questi obiettivi il PNRR si sviluppa lungo 16 assi di intervento (componenti) raggruppati in sei missioni: (1.Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile;  4. Istruzione e ricerca; 5. Inclusione e coesione; 6. Salute)

Il PNRR prevede complessivamente la realizzazione entro il 30 giugno 2026 di 226 misure suddivise tra riforme (62) e investimenti (164). Tali interventi devono essere portati a compimento rispettando una rigida tabella di marcia che prevede, per ogni misura, l’adempimento di alcune scadenze. Queste ultime possono essere di due tipi: i target (traguardi) e le milestone (obiettivi). Per valutare il raggiungimento dei primi si utilizzano indicatori quantitativi, come il numero di imprese che usufruiscono di determinati incentivi o l’incremento di personale nei tribunali. Le seconde, invece, si caratterizzano per una componente più qualitativa e rinviano generalmente all’approvazione di atti normativi o amministrativi.

Il cronoprogramma del PNRR prevede il raggiungimento di milestone e target alla fine di ogni semestre fino al 2026, pena la perdita delle assegnazioni che infatti avvengo su base semestrale. Le misure previste dal piano richiedono il completamento di 527 scadenze in totale, suddivise in 213 milestone e 314 target.

  • L’Italia ha raggiunto entro il 31 dicembre 2021 i 51 obiettivi previsti per fine 2021 e ha ottenuto la prima tranche di fondi pari a 21 miliardi.
  • Entro il 30 giugno 2022 l’Italia ha raggiunto ulteriori 45 obiettivi e ha incassato la seconda rata pari a 21 miliardi.
  • Entro il 31 dicembre 2022 dovranno essere raggiunti 55 obiettivi per poter incassare la terza rata di 19 miliardi. Di questi 55 obiettivi, 21 sono stati già raggiunti dal governo Draghi e lasciati in eredità al governo Meloni.