Inchieste

Siberia, quei disastri ambientali nell’eldorado russo di gas e petrolio

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di Paolo Della Sala

La politica russa del prezzo “basso” e i gasdotti siberiani creati da Putin con i partner europei ha abbagliato la Ue con una corsa verso l’oro dell’Asia settentrionale. Solo che il gas diventava oro solamente per le casse e la volontà di potenza del Cremlino. Nel 2016 Mosca trivellava già il doppio di tutta l’Opec. Putin abbassò i prezzi di vendita per fare “all in” su tutto il gas mondiale. Poteva farlo, perché la Russia ha 47mila miliardi di metri cubi di gas (o 47 Tcm, trillion cubic metres).

L’85% del metano che arrivava in Europa proveniva dalla penisola siberiana di Yamal e dal vicino giacimento dell’Urengoy. In quest’area vivono i Nenci (o Nenet), nomadi di lingua ugro-finnica che allevano renne. La penisola si trova a nord del Circolo polare artico, e in nenciano significa Fine del mondo. I Nenet non hanno mai avuto una vita facile. Gli zar prima, e i Soviet dopo, li hanno deportati, sottoposti a collettivizzazione forzata, rapito i loro bambini e perseguitato il loro credo religioso. Oggi il cambiamento climatico causa loro nuovi problemi: oltre alla neve ora cade anche pioggia, creando uno strato di ghiaccio che impedisce alle renne di cibarsi.

Sulla Yamal, a Sabetta, russi e cinesi hanno realizzato in 4 anni un nuovo porto sull’Artico, legato all’LNG project (gas naturale liquefatto).

La produzione è partita nel 2017 con il giacimento di Tambeyskoye (1,24 Tcm), scoperto nel 1974. Il progetto è stato sviluppato dalla russa Novatek (50,1% del capitale), con la partnership francese di Total (20%), utile all’apporto di tecnologia, spina nel fianco dell’orso russo. Partecipa anche la China National Petroleum Corporation (20%) mentre il 9,9% è del Fondo della Via della Seta. Tra i finanziatori, oltre a cinesi e russi, figurano la Banca del Giappone e l’italiana Intesa Sanpaolo. L’area attorno alla Yamal è estesa quanto la Francia ed è la più ricca di gas al mondo. I problemi per l’LNG di Sabetta sono dovuti all’inverno, che blocca il trasporto su navi di 300 metri, supportate da rompighiaccio.

Il petrolio invece proviene da Khanty-Mansijsk nello Tyumen Oblast, a sud della Yamal. A poca distanza c’è il citato giacimento di gas Urengoy, il secondo al mondo dopo il South Pars tra Iran e Qatar, con riserve di diecimila miliardi di metri cubi. Da qui proviene il gas della conduttura russo-ucraina. L’area dell’Urengoy è di 500 chilometri quadrati e comprende 3mila pozzi. Il giacimento Yamburg, posto di fronte alla penisola Yamal, è il secondo in Russia dopo l’Urengoy, mentre quello di Orenburg, a ovest degli Urali, è il maggiore tra quelli non siberiani.

Se qualcosa si sa sulle disponibilità russe di combustibili fossili, molto meno si sa dei disastri ambientali che in quel Paese sono legati allo sfruttamento delle riserve energetiche. Il porto di Sabetta è incluso nell’Environmental Justice Atlas, l’atlante dei conflitti ambientali che documenta e cataloga episodi dannosi legati all’ambiente. Ma molti altri problemi, dovuti spesso a tecnologie obsolete o alla mancanza di manutenzione, sono censurati dal regime di Mosca.

Il disastro peggiore di cui si ha notizia avvenne nel 1994 nella repubblica di Komi (vicino agli Urali), dove si dispersero nella tundra almeno 120mila tonnellate di greggio per la rottura di un oleodotto. Le perdite continuarono per mesi, anche a causa di riparazioni approssimative. Greenpeace parlò di una tragedia otto volte superiore a quella della petroliera Exxon Valdes in Alaska, ma quasi nessuno si scandalizzò in Occidente. Nel 2014 si registrò un altro grave incidente nella stessa zona: Lukoil venne condannata a pagare 20 milioni di danni alle popolazioni locali, dopo dure proteste e una battaglia legale di Greenpeace Russia. Incidenti sono avvenuti anche nell’impianto di Urengoy, lo scorso giugno. Non dimentichiamo poi l’impatto ambientale dell’esplosione che ha gravemente danneggiato le tubazioni Nord Stream: la fuoriuscita di tutto il metano contenuto nelle tubature potrebbe aver causato fino a 14 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 (per avere un ordine di grandezza: il 32% delle di quelle annuali della Danimarca).

E ancora, il gas bruciato per ritorsione alla frontiera della Finlandia, dopo che Helsinki e Stoccolma sono entrate nella Nato: l’impianto di Portovaya, vicino al confine con la Finlandia, per giorni ha dato alle fiamme gas  per un valore quotidiano di 10 milioni di euro.

Senza contare infine tutti i danni ambientali prodotti dall’intero il ciclo di produzione del gas liquefatto, altamente inquinante.