Inchieste

Tassi, banche centrali al bivio: pompieri o poliziotti?

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di Attilio Geroni

Il già difficile compito delle Banche centrali si è ulteriormente complicato, soprattutto per la Federal Reserve americana e la Banca nazionale svizzera, chiamate direttamente a spegnere l’incendio di crisi potenzialmente sistemiche dei rispettivi sistemi finanziari. E anche se tali rischi non sono apparsi sull’orizzonte di Eurolandia, la Bce pur andando avanti giovedì scorso con il previsto aumento dei tassi d’interesse, ha cambiato – e di molto – la propria retorica: si è mostrata vigile nei confronti di eventuali ricadute della crisi innescata dal collasso della Silicon Valley Bank e monitora con attenzione quanto sta accadendo in Svizzera dopo il salvataggio di Credit Suisse da parte di UBS.

Questi eventi non possono non avere un’influenza sulle prossime scelte di politica monetaria, soprattutto a fronte di un’inflazione che fa più fatica del previsto, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, a rientrare nei ranghi, cioè ad avvicinarsi al livello di prezzi desiderato che è del 2% per entrambi gli istituti centrali.

La Banca centrale europea non ha voluto tradire le aspettative di un rialzo di 50 punti base anche perché una pausa o una stretta più “blanda” avrebbe potuto essere interpretata dai mercato con il crescente timore di un rischio di contagio dagli Usa.

Inoltre la presidente Christine Lagarde è stata più convincente del solito a rassicurare la comunità finanziaria togliendo dallo statement che segue la riunione del Consiglio direttivo e introduce la conferenza stampa, il riferimento a prossimi – sicuri – aumenti dei tassi d’interesse che nel recente passato avevano l’obiettivo di mantenere la politica monetaria «a livelli significativamente restrittivi».

Non si è però nascosta «lo stridente contrasto» che la nuova situazione crea tra il mantenimento della stabilità dei prezzi e il mantenimento della stabilità finanziaria.

Anche per questa ragione ha aggiunto un passaggio importante nel quale promette un monitoraggio costante, sulla base degli ultimi dati aggiornati via via a disposizione, della trasmissione della politica monetaria. Che tradotto dal linguaggio dei banchieri centrali significa misurare costantemente la velocità con la quale le condizioni del credito a famiglie e imprese si inaspriscono. Con quello di giovedì 16 marzo la Bce è al suo sesto rialzo, con il costo del denaro dei tassi di riferimento che è salito dal -0,50% al 3 per cento. Siamo già arrivati, complice l’ennesima tempesta finanziaria che arriva da Oltreoceano, al tasso terminale, cioè al picco del ciclo di politica restrittiva?

Probabilmente è ancora presto per dirlo, anche per l’effetto ritardato dell’aumento dei tassi d’interesse sul ciclo economico e per un’inflazione di fondo ancora resistente. Intanto l’Euribor a tre mesi, benchmark per la definizione del costo dei mutui, è sempre più vicino al 3 per cento, il che porta il costo di alcuni mutui vicini al 4 per cento. Le ultime proiezioni Bce stimano un’inflazione media per quest’anno del 4,6%, superiore alle stime precedenti.

Certo è che questo dilemma è ancora più assillante per la Federal Reserve, dove il presidente Jerome Powell cammina su una corda ancora più tesa che lo vede, come ha scritto il Financial Times, nel doppio ruolo di pompiere e poliziotto: salvare una fetta importante del proprio sistema bancario assicurandogli liquidità ed evitando più contagi di quelli che si sono già verificati e non venire meno al ruolo di garante della stabilità dei prezzi.

Mercoledì 22 marzo era attesa la decisione Fed sui tassi (la versione cartacea di questa pubblicazione è stata chiusa ieri) ma le aspettative della vigilia si dividevano, tra gli analisti, tra una pausa nella stretta e un aumento di soli 25 punti base.

La Banca centrale americana è comunque consapevole del rapido e violento cambiamento di scenario e, ancora di più rispetto alla Banca centrale europea, vorrà cercare un difficile e giusto equilibrio tra lotta all’inflazione e stabilità finanziaria. Nei fatti, si è già acceso un campanello d’allarme: la combinazione tra condizioni finanziarie più restrittive e l’inasprimento degli standard per la concessione di crediti ha già fatto salire i fed funds dell’1,5% rispetto alla forchetta definita con l’ultimo rialzo (4,50-4,75%).

La turbolenze finanziarie che in pochi giorni hanno bruciato sui mercati 500 miliardi deprimendo i corsi azionari soprattutto degli istituti di credito, giungono nel momento meno opportuno. Alcune Banche centrali, secondo molti analisti, nella lotta all’inflazione sono passate nel giro di un anno da una retorica eccessivamente tranquillizzante – il famoso «fenomeno temporaneo» – a una stretta decisamente aggressiva che sta penalizzando l’economia reale in un momento di instabilità e incertezza internazionali con pochi precedenti negli ultimi decenni.

La credibilità di un istituto centrale si è sempre tradizionalmente giocata sul ruolo di garante della stabilità dei prezzi ed è soprattutto in questo modo – riportando sotto controllo un’inflazione ampiamente sfuggita di mano – che cerca di guadagnarsi la fiducia dei mercati. Mario Draghi nel luglio del 2012 utilizzò uno strumento innovativo prospettando il ruolo della Bce come acquirente di ultima istanza per riassorbire il rischio di ridenominazione dell’euro. Quei tempi, però, e quel tipo di coraggio dettato da una situazione eccezionale, sembrano però decisamente lontani.

Il fronte ora doppio delle Banche centrali non implica soltanto la capacità di trovare il giusto equilibrio tra stabilità dei prezzi e stabilità finanziaria, ma anche una visione prospettica che sappia andare oltre la gestione delle emergenze di liquidità alle quali il sistema ha bene o male sempre saputo reagire. Diversamente si corre il rischio di compromettere le possibilità di ripresa economica di molti Paesi e la cosiddetta resilienza mostrata da altri sia a fronte della crisi pandemica sia a fronte delle conseguenze dell’aggressione militare della Russia nei confronti dell’Ucraina.

La capacità di assorbimento degli shock esogeni e lo stress continuo al quale sono sottoposti ormai da oltre tre anni i sistemi economici, non possono essere – e probabilmente non lo saranno – estranei alle prossime scelte dei banchieri centrali.