La Settimana Internazionale

Biden a Varsavia per ribadire un legame che pochi capiscono

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di Attilio Geroni

Nella tragedia e nel fragore delle armi, l’invasione russa in Ucraina ha accelerato la storia d’Europa. La visita a sorpresa di Joe Biden a Kiev, e quella successiva a Varsavia, sono l’ultima – clamorosa – conferma di questa accelerazione.

Mai un presidente americano si era recato in una zona di guerra fuori dal controllo diretto delle forze Usa e soprattutto senza la relativa copertura aerea. La missione, benché presentata come repentina per comprensibili ragioni di sicurezza, ha inoltre implicato un certo grado di contatto e discussione con le corrispettive autorità russe che va oltre la semplice notifica: se non i canali di dialogo, almeno quelli di comunicazione restano aperti tra le due superpotenze e anche questo è un segnale non irrilevante.

Joe Biden è andato in trincea, a dispetto di quanti, soprattutto in alcune realtà politiche europee, lo ritengono un presidente inadeguato, troppo anziano, un gaffeur seriale. Nel nome della difesa della libertà di un Paese sovrano, sotto aggressione, il capo della Casa Bianca ha comunque superato (eventuali) limiti personali e limiti geopolitici, nel senso che gli Stati Uniti saranno al fianco dell’Ucraina fino a quando ce ne sarà bisogno.

L’interesse americano per Kiev non è una novità post-2014, solo figlia delle proteste del Maidan, dell’annessione russa della Crimea e dell’inizio del conflitto nel Donbass. È un interesse che nasce dopo la caduta del Muro e si rafforza con la fine dell’URSS, nel 1991. L’anno successivo l’Ucraina entrò già a far parte dei programmi di assistenza di UsAid, l’agenzia federale americana che si occupa di aiuti allo sviluppo. Il Paese è strategico per gli interessi americani in Europa e lo sarà ancora di più dopo il 1994, quando in seguito al memorandum di Budapest rinuncia al proprio arsenale nucleare trasferendolo alla Russia che in cambio ne dovrà rispettare l’indipendenza e i confini dell’epoca.

È lo stesso interesse, del resto, che gli Stati Uniti d’America hanno sempre mostrato nei confronti dell’Europa orientale, cioè quella parte d’Europa che gli eventi del 1989 hanno strappato all’orbita sovietica restituendo loro la strada verso l’indipendenza, l’autodeterminazione e l’Occidente come sintesi dei valori delle democrazie liberali.

Forse non meno importante è il discorso di Biden, speculare a quello di Putin, pronunciato a Varsavia proprio in difesa di quei valori e contro ogni forma di aggressione che porti morte, distruzione, una modifica dei confini e una riscrittura della storia. E a proposito di presunte gaffes, solo a Varsavia, nella primavera dell’anno scorso, e probabilmente in nessun’altra capitale europea, il presidente americano avrebbe potuto definire Putin, come ha fatto, sollecitato da una domanda, «un macellaio».

È stato il contro-canto alle parole di Putin, un anno dopo l’avvio di un’«operazione speciale» che sarebbe dovuta durare, nei piani originari del Cremlino, pochi giorni, e culminare con il rovesciamento del governo ucraino e del presidente Volodymyr Zelensky.

A molti, in Europa, per scarsa conoscenza storica e per un atteggiamento utilitaristico nei confronti dell’Unione europea (capita di accorgersi della sua esistenza soltanto quando certe decisioni di Bruxelles hanno un impatto su alcuni interessi corporativi e/o di settore) continua a sfuggire questo forte legame tra America, Europa orientale e Baltici. Dai più viene interpretato come un banale legame di sudditanza mentre è un legame di sangue, culturale, storico, alimentato dai grandi flussi migratori che da questa parte d’Europa si sono riversati in America a partire dal 19° secolo, con una forte accelerazione nel 20° secolo.

Fino a quando continuerà a sfuggire il senso profondo di questo legame – che esiste, quindi non necessariamente deve essere ritenuto giusto o sbagliato o bollato come guerrafondaio rispetto ad altre sensibilità europee – mancheranno pezzi importanti del mosaico di questa assurda e anacronistica invasione.