La Settimana Internazionale

Elezioni in Brasile: la nuova sfida del vecchio Lula

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di Attilio Geroni

Unire il Paese. Fermare la deforestazione dell’Amazzonia. Rafforzare le istituzioni democratiche dopo gli anni devastanti della gestione Bolsonaro. Sostenere l’economia nel mezzo di una congiuntura internazionale tra le peggiori degli ultimi decenni. La terza volta di Luiz Inácio Lula da Silva, o semplicemente Lula come lo chiamano tutti, alla presidenza del Brasile, sembra proprio una missione impossibile.

Così come era sembrata impossibile la sua resurrezione politica a 77 anni, dopo essere stato due volte capo di Stato, successivamente accusato di corruzione e incarcerato per quasi due anni, per poi essere assolto da ogni addebito.

La storia della vittoria di Lula

La sua è stata una vittoria di misura sul candidato della destra radicale, e presidente in carica, Jair Bolsonaro, che sicuramente renderà difficile la transizione di potere, nonostante il potente Chefe da Casa Civil, Ciro Nogueira, abbia annunciato che Bolsonaro ha disposto l’avvio della transizione alla nuova presidenza: Lula entrerà in carica il 1° gennaio del 2023 e da qui ad allora non sono esclusi possibili colpi di scena o quantomeno contestazioni da parte del presidente uscente sull’esito finale del voto. Quasi metà del Paese sta con lui, con l’estremismo e il populismo che ne hanno caratterizzato la gestione del potere. Una polarizzazione paragonabile a quella che sta vivendo l’America del dopo-Trump.

Le prime parole di Lula sono state perciò parole di unità nazionale:

Non esiste che un solo Paese – ha detto – e io sarò il presidente di tutti».

Non sarà facile, per lui, ripetere l’exploit dei due precedenti mandati presidenziali, che dal 2003 al 2011 videro la più spettacolare redistribuzione di ricchezza del Brasile democratico con la creazione di 15 milioni di posti di lavoro e una riduzione della disoccupazione dal 12,4% al 6,7% nel periodo compreso tra il 2003 e il 2010.

Allora fu certamente aiutato dal boom delle materie prime agricole, delle quali il Brasile è uno dei più grandi produttori mondiali.

Oggi si ritrova con un Paese più povero, un’economia più piccola (tra il 2010 e il 2014 era la settima economia mondiale, nel 2020 era sceso al al 12° posto e l’anno scorso al 13°), con oltre 33 milioni di brasiliani che soffrono la fame, secondo Oxfam, mentre 63 milioni vivono al di sotto della soglia di povertà così come viene definita dalla Banca mondiale (un sostentamento quotidiano equivalente a meno di 1,25 dollari, ndr).

Il Pil brasiliano dovrebbe crescere quest’anno del 2,7% secondo le previsioni del precedente governo mentre nel 2023 l’aumento non dovrebbe superare l’1%.

Siamo quindi di fronte a un sensibile rallentamento che non esclude una recessione nonostante i generosi trasferimenti diretti di Bolsonaro alle famiglie più bisognose per far fronte al caro energia: l’equivalente di 110 dollari al mese, assieme a una riduzione delle tasse sui carburanti, sull’elettricità, sul gas e riduzione delle tariffe di tlc e dei trasporti pubblici.

L’inflazione, dopo aver superato il 12 per cento nei mesi scorsi, sembra essersi stabilizzata intorno all’8,5% contestualmente a un calo generalizzato dei prezzi energetici.

Il Green New Deal del presidente eletto

Ma come presidente di sinistra e di una corrente politica progressista che in America Latina ha visto l’elezione di capi di Stato anche in Messico, Cile, Colombia, Argentina e Perù, una parte importante del programma di Lula e della sua terza sfida riguarda l’ambiente, con un ribaltamento completo del negazionismo climatico di Bolsonaro e della conseguente deforestazione dell’Amazzonia.

Soprattutto su questo aspetto Lula potrà costruire standing, credibilità e cooperazione a livello internazionale, data l’enorme importanza che la foresta pluviale brasiliana rappresenta su scala globale per il riequilibrio e la riduzione delle emissioni nocive. Le sue credenziali sono buone perché tra il 2010 e il 2014 il Brasile ha ridotto il processo di deforestazione dell’Amazzonia, che, invece, durante il governo Bolsonaro aveva raggiunto i livelli più alti degli ultimi 15 anni, a causa di una spinta alla diffusione di allevamenti intensivi e di attività di prospezione mineraria.

Dovrà comunque fare di più rispetto all’esperienza precedente poiché, anche in un quadro generale di rallentamento del processo di deforestazione, Lula permise nell’area molti insediamenti dell’industria tradizionale e non mostrò sufficiente attenzione all’aumento delle emissioni di CO2.

Marina Silva, una delle più famose ambientaliste del Brasile e ministro dell’Ambiente dal 2003 al 2008, ha paragonato il Green New Deal di Lula a «un programma di ricostruzione post-bellica» che per essere realizzato avrà senz’altro bisogno anche di capitale internazionale, a fronte di nuovi target di riduzione delle emissioni inquinanti, soprattutto di metano, che saranno presto definite dal prossimo Governo.

Su questo fronte le reazioni internazionali sono state importanti e positive. Il governo norvegese si è dichiarato disponibile a riattivare un fondo per la protezione della foresta amazzonica (Amazon Fund) che Bolsonaro aveva sospeso per sospette irregolarità, mentre Nordea Asset Management, parte del colosso bancario Nordea, sta esaminando la possibilità di togliere il bando all’acquisto di obbligazioni pubbliche brasiliane.

Il Green New Deal del presidente eletto Lula non sarà comunque facile da realizzare anche per ragioni interne. Molto di questo piano e il suo finanziamento dovranno passare dal Congresso, che sarà controllato dalla destra, così come saranno espressione della destra, in 14 Stati su 24, i governatori eletti nelle liste di Bolsonaro, a cominciare dallo Stato di San Paolo, il più ricco e popoloso del Paese.