La Settimana Internazionale

La Cina gioca la carta del mediatore

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di Attilio Geroni

C’è un nuovo broker di pace e riconciliazione nel Medio Oriente dilaniato da guerre e rivalità, ed è la Cina. Questo, almeno, è ciò cui ambisce Pechino, l’immagine esterna che vuole proiettare di sé: l’artefice di una governance globale basata su dialogo, compromesso e sull’interdipendenza delle relazioni economiche.

Il recente accordo tra Iran e Arabia Saudita, che dopo sette anni hanno riattivato le relazioni diplomatiche, è stato raggiunto grazie alla mediazione cinese e segue di pochi giorni la pubblicazione del documento, sempre cinese, che fissa alcuni criteri generali di una possibile soluzione del conflitto in Ucraina. La tempistica di queste iniziative non è casuale e ad esse si aggiunge la possibilità che il presidente Xi Jinping, fresco di rielezione al suo terzo mandato, si rechi a Mosca da Vladimir Putin addirittura la prossima settimana e successivamente parli in videoconferenza con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Un’offensiva diplomatica a 360° gradi che non solo tradisce le ambizioni politiche di Pechino, che in Medio Oriente è già il più importante acquirente di greggio iraniano e saudita e intende promuovere nell’area la sua Road & Belt Initiative, ma anche l’intenzione di mostrare l’avversario americano come poco conciliante e gli interlocutori europei privi di iniziative concrete sulla soluzione del conflitto in Ucraina.

La Cina in questo modo crede di avere gioco facile nell’etichettare ogni escalation di sicurezza e difesa da parte americana come una politica estera alimentata “da una mentalità da guerra fredda”. Stesse parole puntualmente utilizzate per criticare la formalizzazione dell’alleanza militare nell’Indo-Pacifico tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia, Aukus, che culminerà nella produzione di sottomarini a propulsione nucleare di nuova generazione.

Nell’ottica della Cina, Washington provoca e alimenta tensioni, mentre lei utilizza l’arma del dialogo e della persuasione diplomatica per tessere i suoi interessi in aree lasciate scoperte dalle ultime Amministrazioni americane, a cominciare dal Medio Oriente e dal Nord Africa.

La spaccatura tra le due potenze mondiali è sempre più evidente, nella sostanza e nella forma – che poi nelle relazioni internazionali è sempre sostanza che viene a galla. Il rischio di questa strategia cinese per gli Stati Uniti e in genere l’Occidente è di essere percepiti come poco flessibili, a corto di iniziative diplomatiche, distratti e allo stesso tempo troppo concentrati nella fornitura a oltranza di armi a Kiev. È un aspetto non secondario della tattica di Pechino, al di là dei possibili meriti oggettivi legati alla stabilizzazione di alcune crisi, come quella tra Iran e Arabia Saudita, che punta alla creazione di un mondo multipolare a propria immagine e somiglianza.

Se fosse confermato, vedremo presto se l’incontro tra Xi Jinping e Vladimir Putin rappresenterà un punto di svolta nella guerra in Ucraina; se il grande agente stabilizzatore (Xi) riuscirà a persuadere il grande agente del caos (Putin) e l’indomabile (Zelensky) ad avviare un percorso di trattativa.

L’importante è sapere che l’impegno di Pechino non è disinteressato e nasce comunque dal desiderio di contenere a sua volta il contenimento che gli Stati Uniti hanno indicato ormai da anni come la loro priorità di politica estera. Sarà come sempre un gioco di convenienze reciproche a creare, forse, un circolo virtuoso tra l’ambizione multipolare della Cina e l’ostinazione americana a non voler cedere la leadership mondiale.

Al momento è difficile vedere un punto di caduta positivo tra queste due tendenza contrapposte e non c’è dubbio che l’offensiva diplomatica di Pechino possa ulteriormente aumentare l’antiamericanismo che la guerra in Ucraina ha in parte disseppellito.