La Settimana Internazionale

Quel difficile equilibrio tra convenienze dietro la neutralità della Cina

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di Attilio Geroni

La neutralità diventa un abito sempre più stretto per la grande Cina. Da quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina, Pechino ha mantenuto una posizione ambigua che nei fatti ha impedito un più forte isolamento di Mosca, sia sul piano politico sia su quello economico-finanziario.

La Cina ha aumentato l’anno scorso del 34,3% le esportazioni verso la Russia ed è diventata il suo più importante cliente di materie prime energetiche, ampliando la possibilità di utilizzo del renminbi come valuta negli scambi commerciali. Insomma, ha puntellato alcuni effetti della disastrosa guerra di Vladimir Putin e nel contempo non le è dispiaciuto vedere in tensione i suoi due più importanti partner economici, Stati Uniti e Unione europea, impegnati a inviare aiuti militari all’Ucraina.

Anche a Pechino fa comodo credere a una proxy war dell’Occidente intero contro la Russia, sia pure in maniera cinica e controllata e non con la retorica, ormai sempre più infiammata, del Cremlino. La “scelta” neutrale è stata infatti un calcolo di comodo perché i rapporti con gli Stati Uniti continuano a essere tesissimi e oltre alla guerra commerciale (e mai risolta) ingaggiata dal presidente Usa Trump si è aggiunta quella sui microchip di nuova generazione intrapresa dal successore Biden. Inoltre, anche se l’Europa si è molto risentita per il varo dell’Inflation Reduction Act americano, che eroga una pioggia di sussidi e incentivi alle imprese per finanziare transizione energetica e conversione alla mobilità elettrica, non c’è dubbio che questa strategia vada a colpire anche l’industria cinese.

È un difficile bilanciamento tra convenienze internazionali, quello che la Cina ha ingaggiato da oltre un anno. Un anno particolarmente difficile, tra l’altro, dopo il fallimento della politica “zero Covid” e il forte rallentamento economico che ne è conseguito. Fino a che punto converrà a Pechino, per non compromettere ulteriormente le sue possibilità di crescita, mantenere un’equidistanza da aggressore e aggredito e alienarsi i rapporti con Ue e Stati Uniti che assieme rappresentano un interscambio di 1.600 miliardi di dollari contro i 190 miliardi della Russia?

Il cambiamento della sua posizione dipenderà molto dalle dinamiche future del conflitto e in ogni caso sarà graduale, prudente, per non mettere in pericolo le sue strategie di espansione, sia sul piano economico sia su quello militare, con il recente aumento del 7% delle spese per la Difesa. La Cina ha i suoi tempi e i suoi riti e nel momento in cui dovesse accorgersi che la guerra in Ucraina è un evento asincrono con i propri obiettivi, allora potrebbe mutare atteggiamento.

Qualche segnale non secondario è già arrivato. Il presidente Xi Jinping a novembre, durante la visita a Pechino del cancelliere tedesco Olaf Scholz, si è espresso contro l’utilizzo di armi nucleari in un conflitto. Una posizione importante, alla luce delle continue minacce rivolte da Putin all’Occidente, ripetuta nel documento governativo che indica le strade da percorrere per una soluzione pacifica del conflitto. Nonostante la Cina in quel testo si mostri più preoccupata dell’espansionismo Nato e degli Stati Uniti che non del destino dell’Ucraina, e indichi soprattutto una cornice istituzionale di riferimento per un’eventuale trattativa, si tratta di un contributo da non sottovalutare.

Molto dipenderà dalla capacità di ascolto di Putin, almeno nei confronti di Pechino. Le sue ultime parole durante il primo anniversario dell’invasione non lasciano ben sperare. La minaccia di una guerra a oltranza, non più contro l’Ucraina, ma con l’obiettivo di sfiancare l’Occidente, rende ancora più imprevedibili i tempi del conflitto. E Putin agente del caos potrebbe davvero non essere più funzionale alle grandi manovre espansionistiche della Cina di Xi Jinping.