La Settimana Internazionale

Sanzioni UE: impatto sul mercato

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Dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina i Paesi occidentali hanno dovuto affrontare un dilemma sempre più stringente: come ridurre la dipendenza dagli idrocarburi russi e i guadagni di Mosca senza compromettere i mercati globali dell’energia. Dopo mesi di pianificazione e negoziati le sanzioni occidentali sul greggio degli Urali sono entrate in vigore, ma le conseguenze sul mercato globale del petrolio e la portata dell’impatto sulla capacità russa di portare avanti la sua guerra restano nell’incertezza.

Venerdì scorso i Paesi dell’Unione europea hanno definito il tetto al prezzo del petrolio russo, in linea con la proposta concordata dal G7. Adesso gli operatori che vogliono accedere ai servizi finanziari e assicurativi del Regno Unito e dei Paesi Ue (dominanti nel settore) per trasportare greggio russo in Paesi terzi dovranno dimostrare di comprarlo a un prezzo inferiore ai 60 dollari al barile. Questa misura si collega all’embargo dell’Ue sul petrolio russo trasportato via mare in vigore lunedì, una decisione che ha privato la Russia di un mercato che fino al 2021 consumava quasi la metà delle sue esportazioni petrolifere e costringe i russi a dirottare quasi tutto il greggio degli Urali verso l’Asia.

Sulla carta l’idea è buona. Fissare il prezzo appena sotto i valori di mercato riduce i guadagni della Russia senza rendere sconveniente, né impedire, di venderlo sui mercati di India e Cina che ormai assorbono il 58 per cento delle esportazioni di petrolio russo. Inoltre, per Mosca il petrolio è una fonte di finanziamento molto più importante del gas, in un mercato più aperto e dominato anche da altri attori (come i Paesi arabi) che non permettono a Vladimir Putin di mettere in atto le stesse manipolazioni che ha applicato al mercato europeo del gas. Tuttavia, la Russia è responsabile del 10 per cento della produzione globale di greggio ed è impossibile che l’embargo europeo non abbia conseguenze, a prescindere dall’efficacia o meno del price cap.

Mosca ha già detto che rifiuterà ogni adeguamento al price cap, e sembra determinata a orientarsi per un commercio di petrolio indipendente dal sistema che ha usato fino a due settimane fa. Secondo gli analisti, la Russia ha messo insieme una “flotta fantasma” di petroliere che sostituirà (e affiancherà) le petroliere degli armatori di Grecia, Cipro e Malta di cui si è servita in questi anni per trasportare il suo greggio. La società di consulenza Rystad Energy afferma che i russi hanno aggiunto 103 petroliere alla propria flotta attraverso l’acquisto e la riassegnazione di navi al servizio di Iran e Venezuela, due Paesi sottoposti da decenni a un embargo petrolifero, abituati a muoversi in questa zona grigia del commercio marittimo.

Solo per mantenere i livelli attuali di esportazioni verso India e Cina, però, la Russia avrà bisogno di accedere a un numero più vasto di petroliere rispetto a quello attuale, poiché la durata di ogni viaggio sarà maggiore. I carichi di petrolio che in precedenza partivano dai porti della Russia europea per viaggi di poche miglia adesso devono tutti andare in Asia, occupando le navi per periodi di viaggio molto più lunghi: da pochi giorni a diverse settimane. Rystad Energy stima che la Russia sarà a corto di almeno 60-70 petroliere, e prevede che le esportazioni via mare diminuiranno di oltre 200mila barili al giorno.

Ma anche avendo le navi, servono le assicurazioni. La capacità del mercato assicurativo russo è ridotta rispetto a quella occidentale, e le autorità cinesi ancora non riconoscono gli assicuratori russi. India e Turchia invece li accettano, almeno in parte, aprendo una zona grigia. Al momento non è chiaro se e come sarà possibile adeguarsi al price cap senza aderirvi ufficialmente, salvando la faccia al Cremlino. Gli analisti e gli operatori sono in attesa di capire realmente come saranno applicate le nuove sanzioni, se è possibile aggirarle con delle triangolazioni, ma senza correre il rischio di incappare nelle eventuali sanzioni secondarie. I rischi e le incognite sono tanti, le risposte arriveranno solo dopo qualche settimana e la consegna dei primi carichi.

I Paesi dell’Opec+ (il cartello dei produttori di petrolio guidato dall’Arabia Saudita allargato alla Russia) hanno risposto a questi fattori di rischio con la decisione di domenica scorsa di mantenere la produzione ai livelli attuali, già artificiosamente bassi, fino alla fine del 2023. Gli analisti si aspettavano che il cartello dei produttori prendesse in considerazione un ulteriore taglio alla produzione per stimolare un rialzo dei prezzi, ma i Paesi del Golfo hanno spinto gli altri membri a non aggiungere instabilità a un mercato già afflitto da troppe incertezze anche sul lato della domanda, come l’indebolimento della domanda cinese e i crescenti timori di una recessione occidentale.

Il vero equilibrio di potere nei mercati petroliferi sarà più evidente solo nei prossimi mesi. È possibile un violento aumento dei prezzi, ma non ai livelli di quest’estate, e un altrettanto rapido riallineamento. Nelle ultime settimane i prezzi del Brent e del Wti sono scesi sotto i 90 dollari al barile da oltre 120 dollari di inizio di giugno, nonostante il taglio alla produzione da parte dell’Opec+. La lezione di quest’anno è che il sistema petrolifero globale è più adattabile di quanto si possa pensare, e i mercati sono a conoscenza di una vasta capacità di produzione residua dei Paesi estrattori.

Quanto alla capacità russa di finanziare la guerra, il modo in cui Mosca porta avanti la sua aggressione ha dimostrato che il Cremlino può continuare anche senza disporre di armamenti troppo costosi e sofisticati, non sarà la riduzione delle entrate petrolifere a far cambiare idea a Putin.