La Settimana Politica

Martelli: il Parlamento riveda la legislazione antimafia

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di Claudio Martelli

«Per quanti sacrifici possa costare, per quanti rischi possa comportare, per quanti lutti dovremo affrontare, noi dobbiamo sconfiggere l’arcaica cultura e la moderna barbarie della mafia. Cattureremo i latitanti, processeremo mandanti ed esecutori, smaschereremo i complici, puniremo i collusi e i corrotti, proteggeremo i testimoni, premieremo i pentiti e manterremo gli irriducibili in carceri dure, senza sconti, senza attenuazioni di pena. Sequestreremo le ricchezze dei mafiosi, scopriremo i loro conti cifrati e i santuari del riciclaggio, spegneremo le loro aspettative di potere, di denaro, di impunita violenza. Non lasceremo altra speranza che la diserzione, la fuga, la resa dell’esercito mafioso per tutto il tempo necessario, finché non si inginocchierà, non confesserà i suoi delitti e non chiederà perdono alle sue vittime».

Le parole che precedono e che risuonano come una dichiarazione di guerra alla mafia sono tratte dal discorso che da ministro della Giustizia tenni al Senato della Repubblica il 6 agosto 1992. L’occasione era quella dell’approvazione del decreto che conteneva le misure antimafia varate dal Governo dopo la strage di Capaci. Nei due mesi precedenti – giugno e luglio – la conversione in legge di quel decreto aveva incontrato tenaci resistenze e fiere opposizioni concentrate in particolare contro la riforma del regime carcerario definita con il nuovo articolo 41 bis.

A muovere critiche e contestazioni erano sia politici sia giuristi che giudicavano il 41 bis una misura contraria alla Costituzione in quanto colpiva un principio fondamentale quale l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. In effetti ai detenuti per mafia e per terrorismo veniva applicato un trattamento differente e ancor più rigido di quello entrato in vigore ai tempi del terrorismo.

Prima di scrivere il decreto volli consultare il presidente della Corte Costituzionale, Aldo Corasaniti, e feci bene. Fu lui per placare le proteste a consigliarmi di stabilire il carattere temporaneo del 41 bis e così, in coerenza con la natura emergenziale del provvedimento, decisi che il 41 bis sarebbe dovuto durare due anni.

In concreto il 41 bis consisteva in questo: isolamento in carcere dei boss mafiosi per prevenire sia i contatti tra i boss detenuti e l’organizzazione criminale esterna sia la sopraffazione degli altri detenuti; drastica riduzione delle visite dei parenti, dei colloqui con i legali, dei tempi e degli spazi di movimento fuori dalla cella; esclusione di sconti di pena e di misure alternative come la semi libertà e la libertà vigilata.

Alla dichiarazione di guerra contro gli autori delle stragi seguirà la guerra vera: l’isolamento in carcere dei boss già detenuti, la cattura di centinaia di latitanti e i tanti che cominciarono a collaborare con lo Stato, venendone protetti, cominciarono a spezzare la catena di comando di Cosa Nostra. La strategia diede presto i suoi frutti. Appena cinque mesi dopo l’entrata in vigore della legge il numero dei latitanti arrestati e quello dei pentiti sfiorava le mille unità. Il 15 gennaio del 1993 nei piani di Cosa Nostra doveva essere quello dell’assassinio del ministro della giustizia, invece fu quello della cattura di Totò Riina, il capo dei capi. Chissà se Balduccio Di Maggio, che indicò ai carabinieri dove risiedeva a Palermo Totò Riina, avrebbe parlato se non avesse avuto paura di finire ammazzato dai suoi o al 41 bis dello Stato.Nel 1992 bisognava debellare la mafia stragista e il lavoro investigativo delle forze di polizia potenziato dal 41 bis è stato l’arma decisiva.

Questo significa che deve essere mantenuto ancora e sempre anche se il contesto fosse decisamente cambiato? Ecco, il contesto. Sarebbe utile, anzi, importante prima di prendere qualunque decisione che il Parlamento, attraverso le sue commissioni, compisse una ricognizione approfondita non solo dell’impiego attuale del 41 bis ma dell’intera legislazione antimafia comprese le leggi e gli istituti giudiziari e di polizia creati allora. Si tratta di capire se nel tempo abbiano subito una torsione rispetto agli scopi cui erano destinati, se siano ancora adeguati o se debbano essere rivisti e aggiornati.

La vicenda dell’anarchico Cospito condannato per due gravi attentati e astretto al 41 bis ha suscitato grande clamore e diviso gli attori istituzionali. Il direttore della Direzione Nazionale Antimafia, Giovanni Melillo giudica necessario e giusto trasferire il prigioniero a un regime di sicurezza meno coercitivo. Il ministro della giustizia invece ha deciso che Cospito deve restare al 41 bis. Davvero singolare che le maglie strette del 41 bis non abbiano impedito i contatti da cella a cella e le dichiarazioni pubbliche di reciproca solidarietà tra l’anarchico e i detenuti per mafia. È evidente che, almeno in questo caso, il 41 bis è stato evaso, aggirato.

È poi giusto porsi domande: a che serve una normativa, sulla carta severissima, se non la si fa rispettare? E ancora: sussiste sempre la gravissima emergenza di una mafia stragista che trent’anni fa indusse governo e parlamento a istituire il carcere di isolamento per i detenuti mafiosi? È troppo chiedere che la discussione parlamentare, necessaria e urgente, non si riduca all’ennesima gara tra chi fa la faccia più feroce?