La Settimana Politica

Piacentini: per il profitto non si fa manutenzione

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Intervista a cura di Alessandro Paciello

Incontriamo Paolo Piacentini, già “consigliere del ministro della Cultura per i Cammini” e già capo della segreteria tecnica del ministro dell’Ambiente, negli anni 2007 e 2008. Piacentini è inoltre autore del libro “Appennino Atto d’amore”.

Il dramma di Ischia sembra avere acceso i fari sul problema pluridecennale e mai risolto della manutenzione del territorio. Come quasi sempre accade, in questo Paese arriviamo ad affrontare problemi gravi e strutturali solo dopo il verificarsi di immani tragedie. Lei, che è uno dei massimi conoscitori dei territori italiani dove ha personalmente camminato per conoscerli nel loro intimo, cosa ne pensa?

Premetto che per ogni tragedia il primo pensiero va alle vittime e ai loro familiari. Ma va anche detto che in Italia dovremmo una volta per tutte smetterla con il piangerci addosso a tragedie compiute e che dovremmo perdere il vizio antropologico di ricorrere al rito, pietoso quanto ormai inaccettabile, dello scaricabarile. Proprio il cambiare rotta radicalmente dovrebbe essere l’azione da compiere per fare in modo che queste tragedie non accadano più.

A Ischia ci sono da sempre delle concause che rendono ad alto rischio idrogeologico buona parte dellisola. Condizioni naturali, legate anche alla storia geologica, a cui si è aggiunta una gestione del territorio davvero sconsiderata, basti pensare al fenomeno drammatico dellabusivismo edilizio.

Dobbiamo denunciare però, se davvero non vogliamo continuare a bendarci gli occhi, che il problema principale è l’assenza di una cura costante del territorio che passa nell’opera principale e fondamentale della manutenzione. Le notizie che si susseguono su Casamicciola ci stanno consegnando, come possibile causa, anche un indebolimento della copertura forestale proprio nella zona dove si è verificata la colata di fango da sotto il Monte Epomeo. In realtà, ad avere necessità della manutenzione del territorio è tutta la Penisola italiana, isole comprese: mettere in sicurezza pendii, fiumi e vallate, attraverso una manutenzione ordinaria e straordinaria è la prima grande opera di cui abbiamo urgente bisogno. I cambiamenti climatici rendono sempre più frequenti i fenomeni meteorologici estremi e il territorio, già fragile ed instabile, non regge. Una manutenzione che non si raggiunge con i grandi interventi successivi al disastro perché, se non realizzati secondo le buone pratiche dell’ingegneria naturalistica, come già successo nel passato, in diverse occasioni hanno determinato paradossalmente un peggioramento della situazione.

In effetti, in questi giorni nel dibattito pubblico sembra si sia accesa una luce sulla necessità della manutenzione, ma alle parole bisogna far seguire i fatti senza continuare con uno scandaloso scarica barile. Quali soluzioni andrebbero trovate a livello governativo e in ambito regionale o locale, per attivare concretamente la manutenzione di cui lei parla?

Qualche anno fa, in termini di analisi puntuale dei potenziali dissesti, avevo proposto a degli esperti di Ispra e del ministero dell’Ambiente, un’organizzazione molto interessante che poteva unire l’analisi visiva dei fenomeni con la trasmissione dei dati agli Uffici Ispra che ogni anno elaborano il documento sul dissesto idrogeologico. Una sorta di presidio locale, utilizzando le persone presenti nel territorio che, a fronte di una defiscalizzazione delle proprie attività private, potessero controllare i luoghi a rischio per segnalarne un eventuale peggioramento del livello di pericolosità. Il problema è che la manutenzione non fa crescere il Pil: prendersi cura del territorio non paga secondo le logiche del profitto immediato, speculativo e avido. Eppure, dalla cura del territorio si possono attivare delle economie distribuite legate a nuove professioni in campo ambientale, nell’ingegneria naturalistica e nella riqualificazione territoriale.

In prospettiva, un serio Piano di Adattamento ai Cambiamenti Climatici può configurare anche una delocalizzazione pianificata e condivisa per gli insediamenti civili e attività produttive che ricadono in aree ad alto rischio idrogeologico?

Questo è un argomento molto ostico, ma dal quale purtroppo un serio Piano di Adattamento ai Cambiamenti Climatici non può sottrarsi (attualmente il Piano è ancora nei cassetti ministeriali). Parliamo di un processo che ha bisogno di una dettagliata pianificazione per arrivare a individuare con estrema precisione i siti ad altissimo rischio idrogeologico in cui le civili abitazioni e gli insediamenti produttivi non possono essere messi in sicurezza. Per queste situazioni a estremo rischio si dovrebbe avviare un processo condiviso con le comunità per valutare come estrema ratio anche una delocalizzazione a saldo zero rispetto al consumo di suolo. Se pensiamo ai terremoti, vorrei ricordare la tragedia di Pescara del Tronto. Quel piccolo borgo, appollaiato su un fragilissimo conoide di deiezione, se si fosse fatta una seria analisi del rischio sismico e geologico doveva essere svuotato e la popolazione spostata. Si sarebbero evitate tante morti e la distruzione totale del paese. È ovviamente un processo che va affrontato con il coinvolgimento della popolazione locale attraverso una campagna di sensibilizzazione molto accurata. Si potrebbero delocalizzare abitanti e attività produttive in siti limitrofi in abbandono, con una riqualificazione che dovrebbe essere a carico della finanza pubblica.

Ci sono territori più fragili di altri, dove anche le attività ritenute sostenibili dal punto di vista ambientale andrebbero evitate per la presenza del rischio idrogeologico ?

Ci sono situazioni ad alto rischio dove l’unica soluzione è quella di evitare nel modo più assoluto l’insediamento di nuove abitazioni o impianti produttivi di qualsiasi tipo. Questo principio vale anche per gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.

Non mi dica che lei è contrario alle cosiddette fonti rinnovabili”…

Tutt’altro! Ma se in assenza di una pianificazione statale e regionale si autorizzano impianti industriali di produzione di energia da fonti rinnovabili sui fragili crinali appenninici dove persino i Lorena, nel caso del Casentino, avevano a suo tempo deciso di proibire il taglio di alberi, vuol dire che la cura e la manutenzione del territorio è passata in terzo piano. Non basta chiamare “parchi” gli impianti eolici industriali per dargli una parvenza di sostenibilità. Bisogna essere coerenti, se davvero si mette al primo posto la cura e manutenzione di tutta la Penisola, perché di superfici idonee da utilizzare per le energie rinnovabili ve ne sono in abbondanza, secondo gli ultimi dati Ispra, e basterebbe scegliere questi luoghi, senza speculazioni e “convenienze” di sorta.

Le grandi associazioni ambientaliste hanno unattenzione molto forte al tema della prevenzione e cura del territorio. O no?

Vengo da quel mondo e ho grande stima e amicizia per le tante figure storiche che hanno fatto crescere nel nostro Paese una coscienza ecologista importante. Oggi, purtroppo, c’è stato un calo di attenzione nell’impegno in difesa della biodiversità e verso altre battaglie storiche, per concentrarsi piuttosto sui temi energetici, con un approccio prettamente tecnocratico che non tiene conto delle altre compatibilità ambientali. Lancio un invito sincero alle grandi associazioni a ritrovare il filo conduttore delle battaglie storiche in cui l’elemento della biodiversità e della tutela del paesaggio avevano un posto paritario a quello della sfida ai cambiamenti climatici. Un invito a uscire fuori da una polarizzazione che caratterizza questa epoca storica anche sui temi ambientali. È inaccettabile la contrapposizione tra progetti di grandi impianti eolici e fotovoltaici e la preservazione del paesaggio. Soprattutto in Italia, dove la tutela del paesaggio è inserita fin dall’inizio nella Carta Costituzionale, la compatibilità è fondamentale anche perché, come nel caso dei crinali appenninici, deve coincidere con la biodiversità e la preservazione delle fragili condizioni geologiche.