Le opinioni

Come essere felici con un lavoro imperfetto

Scritto il

di Antonio Dini
(Giornalista e scrittore)

Negli Stati Uniti, Paese che premia le statistiche sopra qualsiasi altra cosa (forse perché sono la lingua della competizione) c’è ovviamente anche la statistica sul gradimento del proprio lavoro. Quanti sono quelli cui piace abbastanza il proprio lavoro? La risposta è sorprendente: più della metà, il 55%. Sommati a quelli a cui piace moltissimo diventano l’89%. In crescita negli ultimi dieci anni e nonostante la pandemia.

Com’è possibile, mentre si parla di “quiet quitting”, le persone che fanno il minimo indispensabile perché non ne possono più, e di “burnout”, la gente che svalvola in ufficio, che quasi il 90% degli statunitensi siano felici o comunque più che soddisfatti del proprio lavoro? L’errore, spiega Arthur C. Brooks, forse il più importante esperto di felicità e lavoro, sta nella premessa che facciamo sin dai tempi della scuola.

L’idea, spiega Brooks, ex consigliere di presidenti americani diventato a 55 anni professore di Science of Happiness alla Harvard Business School, è che a scuola pensiamo che là fuori ci sia il lavoro ideale. La nostra grande passione, le nostre capacità affinate in anni di studi pesantissimi e costosi, il desiderio di riconoscimento pubblico da parte dei nostri colleghi e quello di guadagnare un sacco di soldi. Per fare tutto questo occorre ovviamente essere perfetti, oltre che fortunati, e questo non succede praticamente mai. Perché? Perché la perfezione non esiste.

Noi invece pensiamo che la perfezione esista e addirittura sia a portata di mano. Da un lato questo è naturale ed è uno stimolo a migliorarsi e fare meglio, certamente. Ma dall’altro è il riflesso di un cambiamento sociale profondo iniziato più di vent’anni fa soprattutto grazie a quel grande amplificatore degli stati d’animo umani che è Internet.

Capire come funziona questo meccanismo è affascinante. Siamo convinti che la perfezione esista perché veniamo addestrati quotidianamente con l’idea del gadget perfetto. Della vacanza perfetta. Del momento perfetto. Ma come, direte voi, lo sappiamo tutti che la perfezione non esiste. Lo insegnano anche a scuola. Eppure, le persone ci credono. Prendiamo gli hobby, i giocattoli per gli adulti, mantenendo ferma la distinzione che la differenza tra un bambino e un uomo è solo il prezzo dei suoi giocattoli.

Bene, se la perfezione è una bugia, provate a dirlo a chi ha un nuovo hobby. L’apparato digitale dei desideri (gli account Instagram monotematici, i subreddit, i forum dei fan) può trasformare un interesse passeggero, una innocente “cotta” per qualcosa di curioso, in un’ossessione totalizzante per il “giocattolo definitivo”, un nirvana in cui tutti i sogni sono realizzati. Orologi vintage, impianti audio analogici, il quilting. Qualsiasi cosa diventa un’ossessione in cui l’unico premio possibile è la perfezione. E lo sforzo, quando si raggiunge la perfezione, dovrebbe essere ripagato dalla gioia assoluta. Solo che, come in una favola postmoderna di Fedro, il ghiottone non è mai sazio.

Se questa è la premessa, la ricerca del lavoro perfetto, caricato dalle ansie di realizzazione e da anni di promesse irraggiungibili (“Se sfrutti il tuo talento e lavori sodo diventerai invincibile”), porta solo a una cosa: la delusione più profonda. E moltissimi di noi l’avvertono, bruciante. Certo, lo stipendio a fine mese in qualche modo lo si porta a casa. Certo, le fatture girano. Ma non è quello che sognavamo.

E allora torniamo agli americani. Com’è possibile che poco meno del 90% di chi lavora negli Usa abbia trovato il suo Paradiso e sia soddisfatto, persino felice del proprio lavoro? La risposta, secondo Brooks, è molto semplice. La convinzione della felicità sul lavoro si basa su un fraintendimento di ciò che porta alla soddisfazione lavorativa.

Per essere felici nell’orario d’ufficio non è necessario svolgere un lavoro affascinante che rappresenti l’apice dei risultati scolastici o l’uso più prestigioso del proprio “potenziale”, e non è necessario guadagnare molti soldi. Ciò che conta non è tanto il “cosa” di un lavoro, ma piuttosto il “chi” e il “perché”. La soddisfazione lavorativa deriva dalle persone, dai valori e dal senso di realizzazione.

Detto in altre parole: avere colleghi decenti che riconoscano la bontà di quel che facciamo (e viceversa) in un ambiente di lavoro sereno nel quale gli aumenti ci siano regolarmente (e non bonus iper-competitivi e saltuari).

E infine, un incontro tra valori: quelli del datore di lavoro e i nostri. E se poi questi valori sono positivi, orientati al miglioramento della società oltre che al guadagno personale, avviene quella che per Brooks è una vera magia: il senso della vocazione. Fare un lavoro che lascerà il mondo migliore di come l’abbiamo trovato ci rende più felici. Il problema è che quasi nessuno da queste parti ha il coraggio di provarci.