Le opinioni

Cosa vuol dire essere felici di lavorare

Scritto il

di Antonio Dini

L’antropologo David Graeber una decina di anni fa ha fatto una scoperta inquietante: oltre il 40% di tutti i lavori nell’economia dei Paesi sviluppati sono quelli che lui definisce “bullshit job”, lavori “stupidi” per usare un eufemismo, cioè non forniscono alcun valore a nessuno, compresa la persona che li svolge.

Graeber, morto a 59 anni nel 2020, non era solo uno studioso di razza ma anche un anarchico militante, che ha partecipato fin dall’inizio a Occupy Wall Street. Era considerato un prodigio dell’antropologia, ma sostanzialmente è stato licenziato dall’università di Yale, dove insegnava. Era una persona complicata, insomma.

Tuttavia, il suo libro “Bullshit Jobs” è, ad oggi, la pietra angolare di tutte le riflessioni su perché sono sempre di più quelli che decidono di licenziarsi. La “Great Resignation”, come la chiamano gli americani, si spiega in tanti modi: con la pandemia (rischiare di morire fa aprire gli occhi alla vita), con le nuove tecnologie (un modo diverso e ibrido grazie a internet), con lo sblocco della mobilità lavorativa (dopo tre anni Istat ha registrato 600mila licenziamenti volontari da posti a tempo indeterminato), con i nuovi lavori su Internet (da chi investe in Bitcoin a chi tenta la startup o vuol fare il micro-influencer).

Ampliando un po’ l’idea dei bullshit jobs di Greaber viene un dubbio: non è che tante aziende oggi sono confuse? Anzi, talmente in crisi di identità da non riuscire ad articolare in modo convincente ciò che stanno facendo? Non hanno una missione chiara, non riescono a mettere in fila i loro obiettivi e non riescono a spiegare il modo in cui il lavoro dei dipendenti contribuisce a raggiungerli. Lavorare in questo tipo di aziende, avrebbe detto Graeber, fa schifo, ovviamente. Se poi si aggiungono le pandemie, il lavoro a distanza e l’aumento della depressione generale, si ottiene un gran numero di dipendenti demotivati.

Dall’altro lato, invece, ci sono anche molte persone che sembrano brave sulla carta (e nei colloqui), ma che non sono in grado di lavorare o non sono disposte a farlo, e quindi usano tutte queste idee come scusa per non lavorare. Travestono i propri limiti in accusa manifestandola con l’insoddisfazione.

Insomma, l’ipotesi davanti alla quale ci troviamo è che esistano almeno due realtà simultanee: un lavoro che fa schifo, cioè che la gente dovrebbe abbandonare, e dei dipendenti che fanno schifo, cioè che le aziende dovrebbero licenziare.

Questo tipo di consapevolezza non aiuta più di tanto, però. Cambiamo prospettiva, allora. Dal punto di vista aziendale, i dirigenti sono convinti che dovrebbe essere giusto pretendere dipendenti che siano energici e impegnati al 100%. E sceglierli sulla base di questo criterio, sia prima che dopo l’assunzione. Tuttavia, un’azienda di questo tipo non è sempre attraente: cattura invece i migliori talenti un’azienda che riesce ad articolare la propria visione e la propria storia non solo durante l’onboarding, offrendo la promozione di valori condivisi e di obiettivi più alti che non il mero guadagno. A molti piace un’azienda che guadagna, ma a tutti piace un’azienda di cui essere orgogliosi.

Questo però è difficile, soprattutto per le piccole e medie imprese che si accontenterebbero di lavorare sodo e fare bene i loro affari. Bisogna essere abbastanza morbidi per essere attraenti, ma essere troppo morbidi attira e trattiene il tipo di persone sbagliato.

Qual è l’alternativa al lavoro tradizionale? Quello basato sull’economia delle reti? Un mondo fatto di partite Iva e startup? I grandi della strategia d’impresa sanno che la “vision” inspirata non corrisponde mai alla “mission”, che invece deve coniugare il pensiero con l’azione.

La parte grossa del problema sta proprio qui: manca un’idea in positivo, una visione che dia il senso ma anche una strategia per realizzarlo. Cosa vuol dire essere felici di lavorare? Il sogno californiano del nuovo millennio con le aziende che attraggono talenti incredibili offrendo loro campus pieni di regalini, coccole e sushi non è più l’esempio da seguire. Allora, qual è?