Le opinioni

Fisco: lettera a Babbo Natale per l’anno che verrà

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di Antonio Tomassini (Professore di diritto tributario, Partner DLA Piper Studio Legale)

Babbo Natale ha avuto desideri più importanti da soddisfare, in primis quelli dei bambini, che in Italia scarseggiano ed è questo il nostro principale problema, poi quelli che ruotano intorno alla pace, fino a quelli di un’economia che trovi il suo baricentro sul benessere dei singoli più che sul Pil, combattendo tempeste temporanee come quelle del nostro amaro tempo su inflazione e caro energia.

Tuttavia, Babbo Natale ci perdonerà, già da ora gli chiediamo per l’anno prossimo qualcosa anche per il fisco, che dalle antiche gabelle ai moderni extra profitti è da sempre la fonte di finanziamento prima delle necessità pubbliche.

Veniamo dall’esperienza onirica (forse termine più appropriato non esiste, visti i tweet-grida notturne dei membri della commissione bilancio alla Camera che raccontano delle guerre stellari sugli emendamenti) della legge di Bilancio 2023.

Davvero (primo desiderio) ci auguriamo sia l’ultima con questo iter di approvazione farraginoso e da “assalto alla diligenza”, dove si spazia da temi strutturali come il caro energia alla caccia ai cinghiali nei centri abitati. Una manovra peraltro senza visione (e, per carità, capiamo emergenze, risorse limitate e giovane età del governo) sulle riforme che servono al Paese, anche con riguardo al sistema fiscale. Il governo ci dice che partirà a gennaio con le riforme: bene, ci si consenta di dire la nostra.

Muoviamo dal “metodo” o, se si preferisce, dalla cabina di regia: sarebbe bello poter avere (secondo desiderio) uno sdoppiamento del ministero dell’Economia con il ripristino di un ministero delle Finanze che guidi il fisco in modo saldo e deciso verso una riforma vera. Occorre conoscere per deliberare, diceva Einaudi, e appunto occorre prima conoscere il reale stato del sistema e la distribuzione della ricchezza nel Paese, attualmente non fotografata dalle dichiarazioni dei redditi.

Passiamo poi al merito, sicuramente la via non è quella della flat tax (“ordinaria” fino a 85mila euro o nella nuova veste “incrementale”, che è quasi un ossimoro, per una tassa che per definizione è piatta) che ci consegna la legge di bilancio, anche perché non è una flat tax “vera”, come quella teorizzata, da ultimo, dall’istituto Bruno Leoni.

La sua introduzione è possibile, perché può anche rispettare il canone costituzionale della progressività, ma non dimentichiamoci che la maggior parte dei tributi hanno già una aliquota flat (si pensi al 26% sui redditi finanziari, oggi peraltro tutti con possibilità di rivalutazione da legge di bilancio, sempre con una aliquota flat) e che nel nostro Paese le riforme fiscali non possono solo guardare alla misura delle aliquote ma necessitano di un lavoro profondo sulla determinazione degli imponibili, sul costo del lavoro e sulla certezza del diritto. Il passaggio alla flat tax “vera”, che tra i pregi deve necessariamente avere quello della semplicità, dovrebbe passare dal riordino o meglio dalla sterilizzazione delle tax expenditures (siamo a quota 636, secondo i dati Mef) e dal superamento della cosiddetta “bonus economy”. Ebbene sembra un esercizio troppo complicato, anche per un governo con una maggioranza ampia e all’inizio della legislatura.

Meglio ripartire dalla delega fiscale appena scaduta e migliorarla, andando (terzo desiderio) oltre la dichiarazione dei redditi. Occorre pensare ad una dichiarazione dei patrimoni (non per tassare ma per fotografare i contribuenti e comprendere davvero la distribuzione della ricchezza nel Paese), inglobando l’anacronistico quadro RW sul monitoraggio dei beni esteri, snellendo gli adempimenti ed arrivando a liquidare in modo unitario IVIE/IVAFE, IMU, imposte locali e bollo auto. In essa potrebbe trovare spazio un meccanismo stile quoziente familiare francese (gli assegni familiari non bastano) e degli indici di congruità che portino ad escludere verifiche. Va poi (quarto desiderio) perseguita a ogni costo la certezza del diritto e la prevedibilità dell’imposizione e qui le dichiarazioni del viceministro Leo di pensare ad un concordato/accordo preventivo tra individui e Pmi e amministrazione finanziaria ci sembrano andare nella giusta direzione. Dove la contabilità analitica e gli automatismi delle grandi imprese o banche non arrivano, occorre ragionare su un patto basato (di nuovo) su una corretta conoscenza dei contribuenti.

Infine (quinto desiderio) pensiamo a premiare, all’interno del sistema, i nostri punti di forza, la cultura e il turismo, magari aprendo le maglie dell’art bonus anche al mondo privato, la ricerca, pensando a meccanismi di attrazione di investimenti stranieri. Senza mai dimenticare che non siamo soli, il fisco di casa nostra deve cercare di anticipare la rivoluzione della fiscalità internazionale in atto, la cosiddetta minimum tax globale e tutte le nuove regole Ocse, rispetto alle quali una grande partita si giocherà proprio sugli incentivi e più in generale su quello che chiamiamo fisco di stimolo.