Le opinioni

Il lavoratore modello non esiste

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di Antonio Dini (Giornalista e scrittore)

Il dipendente perfetto non esiste. Il collaboratore ideale, quello che sa stare in ufficio ma al tempo stesso viaggia oppure lavora da remoto, capace di affrontare le sfide del futuro sempre più incerto senza tentennare, non c’è. Oppure costa troppo, che poi è la stessa cosa. È la persona impossibile: capace di dare le risposte nuove ai cambiamenti che abbiamo davanti ma che ha anche tutti i fondamentali per la vita d’ufficio al loro posto. Però gli imprenditori e gli amministratori delegati lo vogliono, anche se non possono permetterselo.

Qualche giorno fa sono andato a pranzo con un mio vecchio amico, un cacciatore di teste. La persona ideale per capire cosa sta succedendo nella nostra economia, perché dopotutto le aziende sono fatte da persone, non da insegne, scrivanie e muri. Il mio amico mi ha detto subito che sta facendo fatica, perché quello che gli viene richiesto è di trovare sempre persone che non esistono. E allora, come un novello dottor Frankenstein, se le deve inventare, cucendo assieme cose molto diverse, spesso contraddittorie.

Le aziende cercano esperienza, competenza su materie nuove, capacità di affrontare nuovi problemi ma anche flessibilità e una serie di soft skill.

Affidabilità, un certo tipo di presenza gradevole in ufficio, la capacità di gestire l’ambiente con il proprio talento e l’energia per portarlo avanti, ma al tempo stesso di non inquinarlo con una eccessiva competitività.

Mettere tutto assieme è diventato sempre più difficile, visto soprattutto il ricambio generazionale che porta nel mondo del lavoro persone molto diverse e per alcuni versi probabilmente incompatibili con noi “vecchi”. Per questo il profilo del dipendente ideale in realtà è quello di un Frankenstein che viene assemblato di notte, per soddisfare requisiti impossibili. Fragile e comunque costoso e difficile da trovare.

La risposta, mi ha spiegato il mio vecchio amico, forse viene fuori dalla pandemia, che se non altro ha sdoganato il lavoro a distanza, e dalle tecnologie che permettono di gestire tutto il lavoro anche da remoto. Questo consente di creare uno scenario completamente nuovo, che è stato raccontato dalla Harvard Business Review più di un decennio fa, che è stato ispirato dal libro e poi dal film “Moneyball”.

Non so se lo ricordate, il film è con Brad Pitt: racconta la storia di Billy Beane, leggendario direttore sportivo del baseball americano. In sintesi, Beane non aveva le risorse per creare una squadra di campioni, cioè persone capaci di performare ad altissimi livelli su tutto. Così, ha studiato le statistiche del gioco e quelle dei giocatori “scarsi” presenti sul mercato, per capire quale singola cosa ogni giocatore deve saper fare bene nella sua posizione. Con questo approccio ha creato una squadra apparentemente di brocchi che invece vinceva sempre. I suoi giocatori erano talenti super-specializzati sottostimati e sottopagati dal sistema, che invece preferiva quelli bravi a fare tutto, comprese le conferenze stampa e il morale nello spogliatoio. Cose che i suoi “brocchi” non riuscivano a fare.

Nel 2011 Tammy Johns sulla Harvard Business Review è partito da “Moneyball” per ipotizzare: perché, visto che le richieste di grandi talenti in azienda hanno ormai superato quelli disponibili sul mercato, non pensare a un approccio simile? Anziché una squadra di campioni, perché non organizzare un gruppo di talenti più settoriali e trovare delle figure capaci di orchestrarli (come quelli scelti da Beane per allenare e gestire la sua squadra) usando quel che serve quando serve?

Questa strategia sostituisce l’approccio Frankenstein con quello Moneyball. E oggi il mio amico si comincia a chiedere se non sia diventata un’opzione praticabile. Perché lo smart working ci consente di ripensare il modo con il quale costruire la strategia, ma anche come valutare le relazioni e i profili dei dipendenti.

I talenti specializzati spesso non hanno tutte le caratteristiche necessarie per la vita in un particolare ufficio e magari neanche lo vogliono. Però costano meno e se anche lavorano da un’isola in mezzo al mare o dalla cima di una montagna mettendosi sempre la maglietta con Snoopy o il cappello con le orecchie da Topolino, sono bravi a fare la cosa che sanno fare, e sta agli orchestratori gestire il loro lavoro. E sta alle aziende trovare le persone capaci di gestire i talenti super-specializzati (e ai cacciatori di teste trovare dei bravi orchestratori).

Secondo il mio amico cacciatore di teste, le aziende dovrebbero cominciare a organizzarsi come la squadra di Billy Beane, l’Oakland A’s. Perché il dipendente perfetto non esiste, ma è possibile fare molto con quel che si trova. Basta sapere come fare per orchestrarlo.