Le opinioni

Il potere dei social nella comunicazione politica

Scritto il

di Davide Ippolito
(Esperto di reputazione aziendale e direttore di Reputation Review)

Negli ultimi vent’anni anni la comunicazione politica è diventata così importante da aver completamente assorbito tutta la “discussione politica”. La comunicazione politica è diventata praticamente la politica.

Forse è stato quel 26 Gennaio del 1994 con il famoso «è giunta l’ora di scendere in campo» a dare inizio al tutto, o forse è accaduto dopo, con l’avvento dei social media, quando il mondo ha visto in periodi diversi due persone improbabili (per motivi differenti) e diametralmente opposte, facce della stessa medaglia, diventare Presidenti della più grande potenza del mondo: Obama e Trump.

Obama è stato il primo politico a intuire le potenzialità dei social media e la potenza del messaggio da trasmettere, Trump è stato quello che meglio ne ha capito la manipolabilità. La rete e i social, per comunicare e per capire cosa vogliono le persone.

Quando parliamo di reputazione in politica non stiamo facendo riferimento a dei tweet ben riusciti o a qualche post sui social in cui il leader del momento racconta un po’ di finti affari suoi cercando una connessione con il suo elettorato, ma di una strategia che parte da lontano, che si decide a tavolino, che si dipana lungo gli anni per cambiare radicalmente la percezione di una persona.

È il potere delle storie. La reputazione si costruisce con le storie e in politica, come nel business, chi racconta la storia migliore non solo vince ma obbliga chiunque a seguire il suo copione. Porta tutti sul proprio campo di battaglia.

Vorremmo tanto non cedere ai trucchi dei leader politici più provocatori, ma non ci riusciamo. Ogni volta che cediamo, rafforziamo la storia che raccontano.

Attenzione però, qui non si tratta di ignorare per non dare ulteriore visibilità, cosa che comunque on line non funziona, ma di comprendere i meccanismi profondi che ci portano ad agire in un modo piuttosto che in un altro. Parafrasando Humphrey Bogart nel bellissimo film “L’ultima minaccia” … è la comunicazione bellezza!

Chi negli anni si è imbattuto nel tema “comunicazione e politica” ha comunque sempre dovuto fare i conti con due paroline magiche: Elefante e Frame. Chi conosce il libro ha capito subito che mi sto riferendo al bellissimo saggio del linguista americano George Lakoff “Non pensare all’elefante”.

È un libro molto citato che rileggo spesso con piacere e che prova a spiegare, in maniera semplice e brillante, come funziona la mente dell’elettore, quindi in generale la mente di tutti noi. Già nelle prime righe del libro lo spiega. Quando io ti chiedo di “non pensare all’elefante” la prima cosa che il tuo cervello visualizza è proprio un elefante, che porta con sé delle caratteristiche ben precise: una proboscide, delle lunghe orecchie, una stazza molto grande.

Provando a semplificare il più possibile, utilizzare determinate parole richiama all’istante immagini precostituite. Se io ad esempio parlo di tasse, inevitabilmente mi porto dietro un’immagine di angoscia e dolore. Chiunque provasse a parlare di questo tema non farà altro che favorire chi vorrà una riduzione delle tasse. Chi evoca il frame costringe l’avversario a muoversi all’interno del frame stesso, stabilendo le regole del dibattito fino al suo epilogo.

Vale per tutto. Parlo di rave party e visualizzo una precisa situazione. Chi politicamente si può dichiarare a favore di un rave party?

I social sono complicati, oggi contribuiscono in maniera fondamentale alla nostra reputazione. Paradossalmente più in negativo che in positivo e questo perché ancora le persone meno giovani non hanno capito davvero bene come funzionano. Guardando per esempio alle ultime elezioni troviamo tre casi eclatanti, che magari molti hanno già dimenticato e di cui si è discusso molto, di post social e impatti reputazionali.

Il primo è quello del candidato Pd Raffaele La Regina, che ha dovuto fare un passo indietro quando la Rete ha risputato fuori una sua condivisione ad un post in cui, in sostanza, si metteva in dubbio la fondatezza della convinzione di Israele di essere uno Stato. Poi Claudia Majolo, esclusa dalle liste M5s perché in un post nel 2013 scrisse “Berlusconi amore mio” e, infine, Marco Sarracino del Pd, autore di un post accusato di inneggiare all’Unione Sovietica. Ho citato queste tre persone perché con un solo post hanno perso l’opportunità di diventare parlamentari della Repubblica Italiana.

Si potrebbe andare avanti per ore, forse per giorni, raccontando di un posto di lavoro perso, di divorzi, di guai con la giustizia solo per un post sui social. Così provo a darvi dei suggerimenti e delle suggestioni che si possono seguire per non perdere la reputazione.

Come per il fight club le prime due potrebbero sembrare simili.

  1. Nel dubbio, non postate.
  2. Se non ne siete certi, non postate.
  3. Anche se non vi si fila nessuno, i social sono un’estensione della vita pubblica, non di quella privata. Andreste in ufficio o in diretta tv con il costume da bagno, insultando qualcuno o non presentandovi al meglio? Non potete davvero pensare che il vostro uso dei social sia privato, sono uno strumento pubblico, che potenzialmente possono vedere tutti. Quindi…

Non postate

Ne aggiungerei una quarta:

  1. Se non è espressamente richiesta la vostra opinione e non è in linea con il messaggio che volete trasmettere per mantenere il vostro focus e confermare il vostro posizionamento, indovinate un po’…

NON POSTATE

Vi segnalo, se volete approfondire, l’uscita per Natale del nuovo libro di Bruno Chiavazzo “L’Italia s’è destra, Da Draghi a Meloni 100 giorni di comunicazione politica” per il quale ho firmato la prefazione. È vero, si parla di politica, ma cosa non è politica?