Le opinioni

La povertà non è stata abolita: non aumentiamola con la Mia

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di Cesare Damiano (Ex ministro del Lavoro – Presidente Associazione Lavoro & Welfare)

Dopo alcuni anni dall’avvio, si può ragionare su cosa abbia o non abbia funzionato nella formula del Reddito di cittadinanza. Il Governo intende cancellarlo e ha finalmente ipotizzato una proposta alternativa, presentata con l’acronimo “Mia”, che sta per Misura di Inclusione Attiva. Siamo in attesa di conoscere la bozza del decreto. La prima impressione è che la formulazione di questo nuovo provvedimento, nelle ipotesi che abbiamo letto sui giornali, assuma l’aspetto di una significativa diminuzione di risorse da destinare a chi è in condizione di povertà.

Questo, perché sembra che il vero obiettivo sia quello di risparmiare due o tre miliardi di euro. Si erogherebbero minori prestazioni agli “occupabili” e ai “non occupabili” e si taglierebbe il numero di coloro che potrebbero beneficiare di questa misura. È evidente che se si abbassa la soglia dell’Isee (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), necessaria per accedere ai benefici del Mia, che passerebbe da circa 9.300 a 7.200 euro, questo nuovo limite ridurrebbe il numero di coloro che possono avere diritto a tale forma di sostegno. Secondo primi calcoli si tratterebbe di alcune centinaia di migliaia di persone.

Poi, per quanto riguarda il tema della povertà e quello delle politiche attive del lavoro e di come vengano messe in relazione tra di loro, si tratterà di capire il funzionamento del meccanismo. Intanto vengono individuati coloro che sono considerati non occupabili: stiamo parlando di nuclei familiari che hanno al loro interno minori, disabili e over 60. Questi casi non rientrerebbero, perciò, all’interno di un percorso di “occupabilità”. Dall’altra parte, ci sono i cosiddetti “occupabili”. Vale a dire persone in un’età superiore ai quindici anni che abbiano terminato il ciclo scolastico e inferiore ai sessant’anni, che hanno la possibilità di essere collocati nel mercato del lavoro.

Ora, nella nuova ipotesi della Mia sappiamo che, rispetto alla situazione precedente, a queste persone verrà fatta una sola offerta di lavoro. Abbiamo già avanzato alcune proposte per quel che riguarda la fattibilità di questo percorso. È chiaro che può funzionare se si mette in movimento la macchina dei Centri per l’Impiego. E, accanto a questa, sosteniamo da tempo che si debbano includere nel processo anche le Agenzie per il Lavoro, se si vuole che il sistema sia in grado di offrire efficacemente posti di lavoro e formazione. Mettere in movimento questa macchina non sarà facile, soprattutto se si continuerà a ignorare il tema di un significativo investimento pubblico per il potenziamento dei Centri per l’Impiego, in linea con quanto avviene in altri Paesi europei.

La modalità pratica della collocazione al lavoro, a nostro avviso, dovrà obbedire ad alcune regole già normalmente contenute nei contratti nazionali. Facciamo un esempio: nel contratto di lavoro dei metalmeccanici, se un’azienda ha due stabilimenti e si chiede a un lavoratore di trasferirsi da un impianto all’altro, questo può avvenire sempre che non si superi un raggio di cinquanta chilometri dal luogo di residenza del lavoratore alla nuova destinazione. Sottolineo questo aspetto perché in precedenza, in relazione alla modifica del Reddito di cittadinanza, si ipotizzava l’ammissibilità di offerte di lavoro a chi, sempre a titolo di esempio paradossale, abitando a Catania potrebbe essere destinato a Bolzano. È evidente che si tratta di uno spostamento impraticabile che porta semplicemente a un risultato: il rifiuto.

Ancora, è necessario stabilire con cosa si sostituisce un’espressione che viene cancellata. Ossia la “offerta congrua di lavoro”. Se non è più “congrua”, che cos’è? Noi pensiamo che debba essere “dignitosa”. Non è ammissibile un lavoro senza dignità. Quindi, oggetto dell’offerta deve essere un lavoro al quale si applichi un contratto che non sia né “pirata” né in dumping dal punto di vista salariale e normativo.

Inoltre, sarebbe preferibile un impiego a tempo indeterminato, ma si può trattare anche di un lavoro a termine: nella Mia pare che si ipotizzi una durata minima di un mese. Questa soluzione potrebbe andare bene a condizione che, quando il lavoratore conclude il suo impiego temporaneo, rientri nella protezione sociale, cioè nella Misura di Inclusione Attiva. Come accade nel caso della Naspi, l’indennità di disoccupazione. Guai se si pensasse che, finito quel periodo di impiego, il lavoratore non debba avere più nessuna tutela avendo, non per sua responsabilità, terminato quella occupazione. Bisogna, insomma, fare molta attenzione.

In conclusione, sarà senz’altro necessario conoscere bene di cosa si tratta nella realtà al fine di comprendere con esattezza i meccanismi che saranno definiti. Non commettiamo altri errori: la povertà non l’abbiamo abolita ed è dovere morale e materiale di un Paese civile continuare a tutelarla.