Scenari

Come sono cambiati i viaggi della speranza

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di Chiara Giannini

Zarzis, aprile 2011. Questa storia inizia lì, sulle coste tunisine che si affacciano sul Mediterraneo. Ero partita alla volta del confine con la Libia, dove gli effetti della Primavera araba avevano portato centinaia di migliaia di persone a uscire da quel Paese dopo le instabilità iniziate con la protesta del tunisino Mohamed Bouazizi, che si era dato fuoco in seguito ad alcuni maltrattamenti subiti dalla polizia. La sua protesta aveva portato alla Rivoluzione dei gelsomini e aveva innescato la miccia dell’instabilità in molti altri Paesi arabi e nella regione del Nord Africa. L’inizio della fine, con le dimissioni di quatto Capi di Stato: in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali, in Egitto Hosni Mubarak, in Libia Muhammar Gheddafi, ucciso poi dai ribelli nell’ottobre dello stesso anno, e in Yemen Ali Abdullah Saleh.

Ero partita per documentare l’esodo, in concomitanza con i bombardamenti portati avanti dalla coalizione internazionale in Libia. Prima tappa Ras Jadir, terra di nessuno, a due passi da Ben Guerdane, dove dormivo in stanza con due fotografe. Tre donne in mezzo al nulla di un vecchio avamposto della Legione straniera. Per strada topi grossi come gatti, taniche di benzina abbandonate ovunque, dromedari che attraversavano la strada a ogni dove. Lungo il confine numerosi campi di accoglienza, compreso uno della Croce Rossa Italiana. Ma tra tutti spiccava Choucha, gestito dall’Unhcr. C’erano sporcizia e disordine, le donne vi si prostituivano e neanche la visita di Angelina Jolie, loro ambasciatrice, in quei giorni servì a riportare ordine.

Intervistai numerose persone, gente che veniva dal Sudan o da altri Paesi e che per una vita aveva vissuto in Libia. Qualcuno voleva venire in Italia, ma la maggior parte mi diceva che avrebbe voluto tornare in Libia. Fu lì che capii che le partenze, appena iniziate verso l’isola di Lampedusa, non erano ciò che parevano viste dall’Italia. Così decisi di andare a Sfax e Zarzis, luoghi da cui prendevano il mare i barconi e lì ebbi tutto chiaro: chi saliva su quelle imbarcazioni non erano i libici o chi lavorava in quelle terre, ma i tunisini. Anni dopo in Tunisia molti galeotti uscirono dalle patrie galere grazie un indulto e presero la via del mare verso l’Italia. A centinaia. Molti si spacciavano per persone di altra nazionalità, ma poi confessavano: voglio andare in Italia o in Francia o in Germania perché là posso vestire all’Occidentale. E lo facevano mostrando maglie contraffatte e stecche di sigarette che si sarebbero portati nel lungo viaggio.

Compresi, ancor prima che lo capisse la maggior parte della gente, che le migrazioni verso l’Europa non sono dettate dalla voglia di fuggire da una guerra, ma da quella di veder realizzato il sogno di «diventare occidentali». Non come chi fugge da Ucraina e Afghanistan, Paesi distrutti da un conflitto e dalla dittatura talebana. Chi arriva sulle coste italiane è per lo più migrante economico.

Nel 2013 ero su una nave della Marina Militare italiana, nell’allora missione di vigilanza pesca. Caricammo 98 migranti. Molti venivano da Somalia, Etiopia, regioni del Sahel. Quasi tutti giovani, sotto i trent’anni, quasi tutti uomini. Qualcuno laureato. E qualche mamma con bambino. «Ci fanno salire sui barconi – mi raccontò una donna – perché se ci sono donne e bambini il Paese di arrivo è più disposto all’accoglienza». A Gibuti, nel 2019, visitai una baraccopoli. Una madre con il figlio in mezzo a topi e capre mi apostrofò quando le chiesi perché non prendeva un barcone verso l’Italia: «Se io avessi mille euro pensi che prenderei la strada verso l’Europa? No, darei da mangiare a mio figlio».

Ecco perché la vera domanda è: da dove arrivano i soldi che i migranti pagano per i viaggi della speranza? La risposta inquietante mi arrivò da un clandestino in un centro di accoglienza a La Spezia: «A volte arrivano dall’Italia».

Accuse pesanti, difficili da verificare, ma conservo ancora la chiamata che feci a uno scafista fingendo di voler organizzare un viaggio per un ipotetico fratello: «Se non ha soldi – rispose – in Italia lavorerà per noi spacciando». Ho provato a dare quelle conversazioni a un procuratore, ma non ho mai avuto risposte. Lo scafista mi disse anche: «Tuo fratello non rischia, perché quando partiamo chiamiamo le navi dei soccorsi». Insomma, l’Italia in balia di scafisti e signori del crimine organizzato che si permettono di decidere quando le navi delle Ong devono avvicinarsi alle coste libiche o tunisine per recuperare i migranti. Da allora niente è cambiato.

Ciò che sorprende è che la storia raccontata in Italia è diversa. Perché la tragedia di Crotone, con decine di morti in mare, ci ha insegnato che la responsabilità per quei decessi va sempre ai corpi armati dello Stato: Guardia costiera e Guardia di finanza, che da oltre un decennio salvano vite in mare, o ai ministri della Repubblica, come Matteo Salvini e Matteo Piantedosi, che invece sono gli unici a voler bloccare gli sbarchi. Un Paese alla rovescia, questo, dove non si porta più rispetto alle istituzioni. Provate a entrare come clandestini in un posto a caso, come la Thailandia e poi raccontatemi se ci riuscite.

Sapete dal 2011 quanti migranti sono arrivati in Italia? Ben 895.309. Insomma, il Bel Paese ha quasi un milione in più di persone sul territorio, molte delle quali per strada a bivaccare. Qualcuno di voi è stato a visitare un hotspot? A Lampedusa per una capienza di poche centinaia di immigrati se ne sono avuti anche tremila. A Pozzallo ho visto gente stipata in camere da duecento anime a volta, fuggire appiccando il fuoco o distruggendo le vetrate del centro. E non volete parlare delle navi quarantena affittate dal governo Conte in periodo di pandemia?

Uno scandalo dietro l’altro, che ci dà la misura di quanto il fenomeno migratorio sia diventato qualcosa di ingestibile. Mentre le missioni man mano avviate anche in ambito europeo, da Mare Nostrum a Sophia Eunavfor Med a Frontex si dimostrano sempre più un fallimento. L’ultima, nonostante ciò rientri tra i suoi compiti, non ha neanche avvertito le istituzioni italiane riguardo al rischio legato al barcone poi naufragato a Crotone. Il bilancio 2020 di Frontex non è stato approvato dal Parlamento europeo perché non si sarebbe occupata troppo dei diritti umani. Insomma, una realtà inutile. Ma del rispetto della sovranità di uno Stato a non essere invaso da clandestini l’Europa non parla? E poi perché salvataggio tra virgolette? Perché si salva chi naviga perché va in crociera, a pescare, ma se parti con un barcone che ha una capienza inferiore a quella delle persone a bordo, ti metti automaticamente in pericolo. Non si tratta di salvataggi, ma di recuperi forzati di qualcuno che si espone o viene fatto esporre a un rischio. L’Italia prende tutti, diciamocelo. Il barcone naufragato a Crotone era passato vicino alle coste di Grecia e Malta, ma nessuno si è mosso. Nel nostro Paese ci si indigna se gente muore perché parte col mare grosso e si fa di tutto per cancellare lo scandalo Soumahoro, con migranti sfruttati e maltrattati. Una solidarietà e un’umanità coi paraocchi, è palese.

Roma, 3 marzo 2023, stazione Termini. Centinaia di immigrati assembrati lungo il marciapiede, odore di urine ovunque. Poco distante, su via Castro Pretorio, decine di tende, fuoco acceso, sporcizia, cibo abbandonato. Mi avvicino. «Scusate, sono una giornalista, potrei farvi una domanda?». Un tizio sui quaranta, pelle scurissima, mi lancia una bottiglia di birra, che mi passa vicino alla testa. Inizia a gridare: «Vattene!».

Più tardi alla stazione trovo un volontario che dà cibo a chi bivacca. «Ma nessuno fa niente?», chiedo. Mi risponde che sono così da mesi, che nessuno li aiuta, che non hanno lavoro, cibo, vivono nella sporcizia e in condizioni di precarietà e che la maggior parte di loro ha il foglio di via. Ovvero dovrebbe rientrare nel luogo di residenza, in Africa. Neanche lì ho visto gente in quelle condizioni. Sono venuti in Italia per stare peggio. Nessuno riparte. Nel 2022 sono state appena 8mila le persone rimpatriate, con costi altissimi. E allora come si risolve il problema? Facendo accordi puntuali coi Paesi di transito e partenza e creando canali regolari. Nel 2011 vidi coi miei occhi la Guardia costiera tunisina riportare indietro i barconi dopo gli accordi col governo Berlusconi. Credetemi, è possibile. È questione di volontà.