Sostenibilità

COP: l’importante è partecipare ma vincono solo gli hotel

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di Francesco Bertolini

La carovana COP è già in viaggio per Dubai, per l’edizione numero 28. Importa poco che a Sharm el Sheikh i risultati raggiunti siano sintetizzabili in un altro annuncio vuoto, e cioè l’istituzione di un fondo “loss and damage” per compensare i Paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, senza indicare in maniera precisa quali sono questi Paesi, chi dovrà finanziare questo fondo, o come sarà redistribuito; tutto rimandato al 2023, ma si doveva comunque avere qualcosa da annunciare per evitare che il flop fosse totale. Ormai gli obiettivi di riduzione sembrano fogli di un vecchio libro che non si ristampa più, si devono solo compensare i danni e adattarsi all’aumento delle temperature.

Era il 1992 quando i delegati di 154 paesi si trovarono a Rio de Janeiro per scrivere la convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. E dal 1995, a Berlino, si decise di organizzare, ogni anno, una conferenza delle parti, per verificare i risultati raggiunti e gli obiettivi da definire Da allora si sono trovati ventisette volte, c’è stata Kyoto con il celebre protocollo, Parigi nel 2015 con i famosi accordi che indicavano in 1,5 gradi il limite massimo da non superare,  i Paesi son diventati duecento e il piccolo evento di Rio si è trasformato in un carrozzone che ormai viaggia in maniera autonoma rispetto a obiettivi e risultati.

La mia prima volta alla COP fu totalmente casuale, a Buenos Aires, nel 1998, con Bill Clinton e l’allora presidente argentino Carlos Menem a promettere riduzioni delle emissioni e l’inizio di una nuova luminosa via per l’umanità. Nel 2021 le emissioni di CO2 hanno raggiunto il livello più alto della storia, arrivando a 36,3 miliardi di tonnellate (dati IEA 2022).

Ma nonostante questi risultati a Sharm si ripete lo stesso copione di sempre; all’entrata gli attivisti, orfani di Greta e alla ricerca di nuovi leader, invocano una conversione vegana dell’umanità, gli indigeni, nei loro costumi tradizionali, saltano denunciando i rischi che i loro paesi si trovano a fronteggiare per il cambiamento climatico e dentro migliaia di delegati chiacchierano cercando di trovare un punto di incontro che renda la Cop27 un ennesimo flop ma con una storia da raccontare.

Dura 13 giorni l’evento, e non si capisce che senso possa avere una durata di questo tipo, quasi come una Olimpiade; se ci fosse da ratificare un accordo ci vorrebbero un paio di giorni, se ci fosse da trovare ci vorrebbero mesi. Ma arrivando a Sharm el Sheikh, dove i prezzi degli alberghi nel periodo Cop27 sono aumentati di 15 volte (i prezzi medi in questi giorni non sono al disotto dei 700 euro a notte), si capisce che ormai il carrozzone va avanti per inerzia e chiunque provi a criticarne il senso viene tacciato di antiscienza; l’approccio ci ricorda qualcosa, e anche qui c’è un’unica narrazione. Se non ci fossero stati gli accordi delle Cop sarebbe molto peggio è la teoria prevalente.

Gli interessi in gioco sono enormi, il mercato della decarbonizzazione dell’economia cresce a ritmi esponenziali e tutti vi ci sono ficcati, senza valutarne a pieno le conseguenze. E così arrivano tutti, dalla Meloni a Biden fino ad arrivare all’idolo delle folle sinistre, il neo rieletto Lula e non importa se sia arrivato in Egitto con un aereo privato di un suo amico imprenditore del settore sanitario, accusato di corruzione.

Il centro congressi di Sharm è vicino all’aeroporto, con robocop che presidiano per chilometri l’area; fa impressione vedere poveri agenti della sicurezza, in giacca e cravatta sotto il sole egiziano, in mezzo al deserto, uno ogni cento metri, a controllare il niente. Ma il generale Al Sisi non vuole problemi, qui non ci sono attivisti che protestano, le manifestazioni di dissenso son state vietate.

L’Italia ha un grande padiglione, per la prima volta dopo anni in cui si inseriva in quello europeo, ma questa volta il governo precedente (sottotono, per non urtare le sensibilità di chi vorrebbe tagliare i ponti con l’Egitto per il caso Regeni) non ha  badato a spese.  Il padiglione italiano è tuttavia minuscolo rispetto a quello egiziano, padrone di casa, che deve ostentare la potenza del Paese, indipendentemente dalla sua transizione ecologica, così come quello saudita, dove i grandi lobbisti del fossile si incontrano per i loro business (sono 660 i delegati dell’industria petrolifera accreditati alla Cop 27).

L’Egitto è stato scelto come sede perché si va a rotazione continentale e questa volta toccava all’Africa. L’ultima volta africana era stata Marrakech, nel 2016. Quell’edizione portò a un brusco risveglio del carrozzone, in quanto proprio durante lo svolgimento di quella COP venne eletto Donald Trump, nello sgomento generale di chi si aspettava meraviglie green dalla scontata vincitrice Hilary Clinton.

Ma Trump aveva annunciato in campagna elettorale che sarebbe uscito dagli accordi per il clima e così fece, rendendo quindi gli accordi presi sostanzialmente senza senso; ma per cavilli normativi, per uscire completamente dagli accordi servono più di quattro anni  e così l’arrivo di Joe Biden rimise in carreggiata il carrozzone, ripartito con nuovo slancio. Probabile che se tra due anni il vecchio Joe lascerà la Casa Bianca a Trump o a De Santis il copione potrebbe ripetersi.

Ma nel frattempo a Sharm el Sheikh si fanno ricevimenti, si brinda e si intavolano progetti da sviluppare e partnership da consolidare.

Se anche solo un millesimo dei fondi usati e pensati per la transizione energetica venisse usato per ripulire i mari dalla plastica o per rendere fertili aree desertiche il mondo sarebbe un miglior luogo in cui vivere; ma c’è un unico nemico e la guerra deve essere implacabile, bisogna ridurre l’impronta di carbonio. Catturare la Co2, altra possibile soluzione, non è ammessa dai duri e puri.

L’Europa, già l’area del mondo con i regolamenti più restrittivi in termini di emissioni (si pensi alla messa al bando dei motori a benzina e diesel dal 2035) appare come una modella perennemente a dieta sull’orlo dell’anoressia, in un mondo bulimico che non ci pensa proprio a seguirla. Con questo approccio si rischia tuttavia di morire; la sostenibilità ha sempre considerato gli aspetti economici e sociali, oltre a quelli ambientali, ma stavolta la Ue va dritta per la sua strada, decontestualizzata dalla situazione globale. There is no alternative è il motto, anche qui si procede in modo religioso, senza ammettere visioni diverse, come quella di chi sostiene, come Stefano Mancuso, che piantare mille miliardi di alberi potrebbe mitigare significativamente l’aumento delle temperature, visto che modificare i modelli di consumo sembra impossibile.

La crisi del gas ha posto un ostacolo alla gioiosa macchina da guerra europea, in quanto ha obbligato molti Paesi (Germania in primis) a tornare al carbone, disattendendo così gli accordi presi. La Cina, che da sola rappresenta il 30% delle emissioni globali, ha promesso di raggiungere il picco delle emissioni nel 2030 e di azzerarle nel 2060, ma nel frattempo sta costruendo altre 27 centrali carbone e il presidente cinese Xi Jin Ping, insieme al primo ministro indiano Narendra Modi (l’India è l’altro grande paese che non si pone nemmeno lontanamente l’idea di ridurre le emissioni, al di là delle parole di circostanza) è l’unico leader di un grande paese assente alla Cop27. Manca anche Putin, che ha altri problemi in questo periodo, ma a Sharm non mancano i Russi e nemmeno gli Ucraini; si divertono allegramente insieme nei grandi resort e non ne vogliono sapere della guerra, a testimonianza che il mondo reale è sempre diverso da ciò che viene raccontato in Italia. I resort sono lontani dalla Cop27 dei buoni propositi, dove una simpatica signora egiziana addetta alla pulizia dei bagni ride come una matta quando le chiedo il significato del simbolo fuori dai servizi igienici, dove ci sono tre figure, uomo, donna e un misto dei due, immagine iconica del modello inclusivo targato United Nations.

C’è un ulteriore fattore critico sulla strada COP, e cioè la ridefinizione dei rapporti geopolitici a seguito della guerra russo ucraina; difficile pensare che nuove alleanze non incidano anche nei rapporti di forza tra Paesi, dove la Cina continua ad aumentare le proprie emissioni e cerca sponda con l’India e altri nuovi colossi dell’economia mondiale, che rappresentano la maggioranza della popolazione mondiale e rivendicano quindi un approccio più democratico, avendo storicamente emesso molto meno di Stati Uniti e Europa e soprattutto avendo una impronta ecologica molto più piccola dei Paesi che intendono definire le regole e scrivere le agende.

L’impronta ecologica media di un americano, la quantità cioè di ettari in grado di fornire i beni e servizi che questo consuma è pari a 8,22, mentre quella di un cinese è pari a 3,38 e quella di un indiano 1,16 (la media mondiale è 2,75). Ma la democrazia è un valore strano, non sempre viene ritenuto così importante, e così si chiedono sforzi enormi a Paesi che hanno ancora un livello complessivo di vita e di consumi molto inferiori a altri.

Se ragionassimo in termini “democratici” dovremmo considerare l’impronta ecologica di ogni cittadino sul pianeta terra e ragionare in chiave conseguente, senza indicare a priori i buoni e i cattivi; ma nessuno ne parla, l’importante è non spegnere la fiaccola, già in viaggio verso la Cop 28 di Dubai.