Sostenibilità

Il polmone del mondo sempre più affaticato

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La pista è assolata, nonostante la stagione delle piogge, ma la luna piena, così dicono da queste parti, ferma la pioggia per qualche giorno; non esistono finger o autobus, si scende dall’aereo e a piedi si raggiunge la piccola stazione, intorno foresta e fiumi, in questo labirinto che è l’Amazzonia. Le donne si proteggono dal sole con un ombrellino, come si usava nel secolo scorso nella borghesia europea. La città è a circa 30 km dall’aeroporto, segno che si prevede un rapido sviluppo, che distruggerà la foresta che oggi lo separa dal centro abitato. E così, attraverso nuove strade, aperte nel cuore della foresta, sono arrivato, dopo un lungo viaggio e 4 voli a Santarém, tra Belém e Manaus, nel cuore dell’Amazzonia.

Qui ci si arriva solo da Brasília o da Belém via aereo, o via fiume, con quei battelli che sono rimasti quelli dei film del secolo scorso, dove le distanze si calcolano in giorni di navigazione e dove le notti si passano su amache che ti vengono affittate alla partenza, qualora tu non ne abbia una di tua proprietà.

Da qui partono i battelli per Manaus, per Macapá, per Belém, viaggi che durano 3/4 giorni; tempo e spazio in Amazzonia sono concetti molto diversi dai nostri. Qui tutto è diverso, anche se tutto sta velocemente cambiando.

L’Amazzonia, nell’immaginario collettivo, è popolata da giaguari, serpenti, caimani e piranha. L’Amazzonia è il polmone del pianeta, si ripete come amazzoni, gli splendidi pappagalli tipici di questa regione. In realtà la vita per queste specie è sempre più difficile, perché l’uomo continua ad avanzare togliendo loro spazio vitale.

Nella regione amazzonica vivono ormai 34 milioni di persone, con tutti i problemi che questo implica in termini di impatto antropico; si dice sempre che l’Amazzonia appartenga al mondo, la logica conseguenza sarebbe che anche i problemi legati a chi vive in quell’area appartengano al mondo. Oltre alla storica Manaus, altre città sono cresciute in maniera dirompente, come Belém, o stanno esplodendo, come Santarém, a metà strada tra le due grandi città della regione.

Santarém ha oggi 350mila abitanti, e un unico palazzone che si vede da lontano; secondo la teoria degli “istogrammi” che collega il numero di palazzoni alla ricchezza di una città, Santarém è ancora povera, ma c’è da scommettere che il suo skyline cambierà molto rapidamente nei prossimi anni.

Oggi la regione amazzonica cresce a due cifre, è la parte del Brasile più dinamica, chi vuole arricchirsi viene qui, non più a San Paolo; qui servono architetti, ingegneri, operai, serve tutto, è l’epoca della distruzione che purtroppo coincide ancora con la ricchezza, si costruiscono strade, case, aeroporti, scuole e ospedali, e tutto questo corrisponde a Pil, l’unico, ancora oggi, maledetto indicatore su cui tutte le politiche si fondano.

C’è una nuova corsa all’oro in Amazzonia, il cui suolo ne contiene enormi quantità.  Nascono in continuazione nuove miniere illegali per  sfruttare nuove vene aurifere; una guerra persa, che il governo vuole cercare di governare concedendo licenze regolari per lo sfruttamento, in modo che perlomeno si evitino attività ancora più devastanti da un punto di vista ambientale. I “garimpeiros”, i leggendari cercatori d’oro, non sono infatti particolarmente preoccupati dell’inquinamento quando utilizzano in modo massiccio il mercurio (reperito al mercato nero, essendo vietato), che, combinandosi facilmente con l’oro, consente loro di procedere successivamente all’identificazione del prezioso metallo, riversando nei fiumi veleni pericolosissimi per la salute di chi vive in quei territori. Le miniere illegali sono diffuse in tutto il bacino amazzonico, ma sono concentrate in modo particolare nella riserva degli Yanomami, il gruppo indigeno più numeroso, oggi più minacciato che mai dalle violenze e dalle malattie portate dai cercatori d’oro. Non è solo l’oro, o le altre risorse preziose custodite nel suolo a mettere a rischio la foresta. C’è il pascolo, responsabile del 60% della deforestazione e ci sono le responsabilità indirette dell’industria della carne, in prima battuta legata alla coltivazione di soia. A Santarém è nato un porto logistico della Cargill, grande gruppo americano (Cargill lavora per nutrire il mondo è il suo motto), che ogni giorno riempie navi cargo di container pieni di soia. L’unione europea ha vietato l’importazione di soia da aree soggette a deforestazione, ma il problema è che il 60% della soia amazzonica va alla Cina per i suoi allevamenti di maiali e il 20% al mercato interno brasiliano per gli allevamenti di polli. Il terreno qui è fertilissimo e quindi qualunque seme germoglia rapidamente; per questo motivo nella coltivazione della soia si usa una quantità enorme di pesticidi, per consentire al seme oggetto della piantagione di non essere sopraffatto da altri semi della ex-foresta, e così i suoli e i fiumi vengono uccisi in maniera sistematica. Il Brasile è tra i maggiori produttori di soia (insieme con USA e Argentina rappresenta l’80% della produzione globale).

Le politiche dei vari governi hanno sempre tentato di spostare il peso della popolazione dalla costa all’interno di questo enorme Paese; e così con gli insediamenti urbani sono nati tutti i problemi che conosciamo. Il Rio delle Amazzoni è tra i maggiori responsabili di veleni e rifiuti nei mari del mondo, assieme ai grandi fiumi cinesi. In queste aree non esiste un sistema di raccolta rifiuti efficiente, e così tutto finisce, quando non direttamente nel fiume, nella discarica Perema, a un’ora circa dalla città, dove ogni giorno vengono scaricate 200 tonnellate di rifiuti. In uno scenario che sembra un girone infernale, uomini e donne cercano di raccogliere materiali che possano essere riciclati.

Guadagnano 100 euro al mese circa i “catadores” che fanno capo a tre cooperative che si fanno la guerra, anche violenta, tra di loro.

Le cooperative cercano di vendere i materiali che arrivano dalla discarica; una di queste mi dice che vende una piccola parte della plastica raccolta a un impianto Volkswagen a cinque giorni di viaggio via terra da qui; i carburanti costano poco, circa la metà rispetto all’Italia, ma pensare che sia economicamente vantaggioso trasportare plastica per cinque giorni di camion, significa che sia la plastica sia i catadores hanno un “valore di mercato” insignificante.

Migliaia di Urubu, uccello della famiglia degli avvoltoi, saltellano tra i rifiuti e i catadores, prima di tornare ad appollaiarsi sugli alberi a pochi metri dalla discarica. Oggi in Brasile ci sono circa ottantamila catadores, che lavorano nelle strade e nelle discariche del Paese,  organizzati in 1100 cooperative. I catadores raccolgono circa il 90% dei materiali che hanno un mercato, a testimonianza della totale assenza delle istituzioni in un tema, come quello dei rifiuti, pubblico per definizione.

Esistono leggi anche in Brasile, ma totalmente disapplicate, senza catadores la situazione sarebbe ancora peggiore. Ovviamente  raccolgono solo materiali che hanno uno sbocco, una potenziale seconda vita, tutto il resto finisce nell’ambiente. Un disastro, ma è proprio dai catadores che probabilmente si deve partire per gestire la situazione. Ed è con questa logica che è nata  la Bolsa verde di Rio de Janeiro, un vero e proprio mercato di “crediti”, con l’obiettivo di dare maggiore valore ai materiali raccolti e di conseguenza riconoscere maggiore valore al lavoro delle cooperative. Il sistema opera sulla falsariga di quello dei carbon credits, consentendo alle imprese di compensare il loro impatto in termini di consumo di materiale acquistando crediti presso la borsa di Rio. A un credito corrisponde una tonnellata di materiale, e, per evitare la finanziarizzazione del processo, tale credito può essere trasferito solo una volta. Il valore del credito, (circa 85 US$ a febbraio 2023) finisce alle cooperative, consentendo loro di pagare meglio i lavoratori e incentivando in questo modo, concretamente, un avvio di economia circolare.

La discarica di Santarem non è l’unica discarica “infernale” in Brasile, così come non è sicuramente la peggiore del pianeta, Africa, Asia e lo stesso sud America hanno una lunga lista di incubi ambientali da presentare al festival delle discariche più inquietanti al mondo ma questa ha qualcosa in più; si trova nel cuore della foresta amazzonica, il suo percolato scende e finisce in fiumi che a loro volta sfociano nel rio delle amazzoni. È preoccupato Rubensilva, capo del Quilombo Bom Jardim, a pochi chilometri dalla discarica. I Quilombo sono comunità fondate da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano prigionieri ai tempi della schiavitù e che, ancora oggi, cercano di resistere ai richiami delle città, ricostruendo nella foresta piccole comunità che vivono sostanzialmente di autoproduzione e consumo.

È preoccupato nel vedere l’acqua dei ruscelli che a volte cambia colore, e soprattutto è consapevole delle difficoltà che avrà, sempre maggiori, a resistere alla distruzione della foresta, a causa della discarica o a causa dei grandi produttori di soia. Qui resistere è difficile, sono centinaia le persone uccise perché si opponevano all’avanzata delle ruspe. Sembra un mondo destinato a sparire, scene da un film, vedere la bambina arrampicarsi sulla palma di açai, come fanno tutti i raccoglitori di questo prezioso frutto, divenuto un ulteriore fattore di distruzione, vista la moda che si è scatenata in occidente per le sue proprietà. Vengono raccolti da adolescenti, magri e leggeri, con un coltello sulla schiena, senza nessun tipo di protezione, con i caimani che aspettano, sotto, eventuali drammatiche cadute. Questa è l’Amazzonia oggi.

Questa è la realtà; nonostante l’Europa continui a parlare di sostenibilità ed economia circolare come se fossero le uniche due parole di ogni agenda politica, il mondo sembra andare in direzione opposta: il livello di circolarità dell’economia mondiale è passato dal 9 al 7,2% negli ultimi cinque anni. L’economia globale consuma attualmente cento miliardi di tonnellate di materiali l’anno, e tale valore incredibile è previsto raddoppiare entro il 2050. Prima del Covid era di moda parlare di luoghi, bar, ristoranti, alberghi plastic free, oggi siamo al free plastic, con un mondo ipocondriaco che impacchetta nella plastica qualunque cosa.

Il consumo di plastica è raddoppiato rispetto al 2000, e tale dato non mi stupisce vedendo la follia di un venditore di acqua di cocco che rovescia il prezioso succo in un contenitore in plastica, da cui, con un piccolo rubinetto, fa scendere l’acqua che mi consegna in un bicchiere, rigorosamente in plastica. Di fronte a un episodio folle come questo ci si rende conto di come il mondo si muova con logiche e prospettive non divergenti, ma completamente opposte a quanto si dichiara nelle conferenze, e di come politiche unilaterali come quelle europee siano solo figlie di approcci ideologici fuori dai contesti globali.

Fa impressione vedere i pescatori che, senza canne, con piranhas sotto le ciabatte, con un filo arrotolato a una bottiglia di plastica, catturano senza fatica una enorme quantità di pesci, così come ampia è l’offerta al mercato, con i delfini rosa che aspettano gli scarti dei commercianti. Il mondo ha perso il 70% dello stock ittico globale, ma qui sembra che il fiume continui a rigenerarsi all’infinito; nessuno fa controlli sulla qualità del pesce pescato o sui metalli pesanti che contiene, come sempre è una questione di priorità e qui la priorità è avere qualcosa per la cena.

Sembra un mondo lontano, e forse lo è; per questo è surreale vedere arrivare, in una spiaggia del fiume, deserta, senza nessuno a vista d’occhio, un simpatico ragazzone con la sua barchetta, che scende e ci offre i gelati, consentendo il pagamento digitale, molto diffuso in Brasile, attraverso il metodo pix, che non prevede commissioni.

Tecnologia e foreste millenarie, un connubio che sembra impossibile, ma questo è ciò che vediamo oggi in Amazzonia; trovare modi per coniugarli è difficile, ma se lo sviluppo e la tecnologia sono state le responsabili della distruzione della foresta, possono anche essere artefici di una sua tutela e di una sua rigenerazione.